16 luglio 2007

fino al 23.IX.2007 Jan Fabre Venezia, Palazzo Benzon

 
Giacinto di Pietrantonio e la Gamec di Bergamo si trasferiscono in laguna. Portandosi appresso il sapore amaro delle Fiandre di Jan Fabre. Per uno fra i più affascinanti eventi collaterali della Biennale...

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Jan Fabre (Anversa, 1958) è presente a Venezia in duplice veste. Come partecipante alla collettiva Artempo, allestita nel mirabolante Palazzo Fortuny e soprattutto con la personale organizzata dalla Gamec, dove un paio d’anni fa s’era visto nella corposa rassegna War is over e nel 2003 con un’esposizione a solo dal titolo Gaude succurrere vitae.
Nel settecentesco palazzo Benzon, le cui sale hanno ospitato fra gli altri Byron e Foscolo, tutto ha inizio nel cortile. Introduzione affidata alla title track della mostra, Antropologia di un Pianeta (Modello di pensiero marmoreo, Studio I). Un cervello in marmo bianco poggiato su uno zoccolo; un cervello sul quale s’incunea una vanga impugnata da un uomo. Dallo spazio aperto a quello coperto, ma ancor prima di salire a palazzo, lo sciabordìo dei natanti sul Canal Grande si confonde con quello -potenziale- dell’acqua contenuta in vasche da bagno d’antan in bronzo lucidato. Allineate, dorate, vuote; non fosse che per una, dove un altro uomo, colui che “scrive sull’acqua” (2006), è immerso fino alla vita, vestito di tutto punto.
È il punto di svolta, la cheville della mostra. Viatico o intimazione? Procedere al piano superiore o ritenersi soddisfatti? La curiosità s’accompagna all’ansia, qualora si opti per la prima scelta. Privo di indicazioni way finding, il visitatore dovrà prendere alcune altre decisioni, in uno spazio che crederà di poter agevolmente gestire. Per quanto riluca la fiaccola di libertà che ci s’immagina di tenere salda nel palmo della mano, Fabre ha approntato climax ascendenti di notevoli inclinazioni, pronte a svellere ogni grado di sicumera.
Jan Fabre - Sputo sulla mia tomba – 2007 – dimensioni variabili - ferro, poliestere, capelli umani, vetro, tessuto, pompa, fluido, pietre tombali di granito e vestiti
Prima di schiantarsi sulla cima, sfilano opere più o meno recenti, e nel contempo occorre iniziare a farsi perdere da un altro elemento. Se il collo del cigno che si tende stremato dall’involucro sferico (Il problema, 2001), nella più classica cifra entomologica fabriana, attira buona parte dell’attenzione; se medesimo magnetismo sprigiona la parata di teste di “gufo” (Messaggeri della morte decapitati, 2006); se la ribalta è occupata quasi militarmente dall’urlo soffocato del Fabre più noto; oltre la luce zenitale, sulle pareti, quasi oscurati alla vista da decorazioni e tappezzerie, sono affissi innumerevoli disegni realizzati in questo terzo millennio. Segni silenti, basilari nell’economia della mostra. Silenti nel senso attivo del verbo silere. Disegni che fanno silenzio, finanche azzittiscono le esclamazioni di chi resta turbato dalla poetica macabra, sublime del fiammingo.
Ancora pietre di paragone nel salone centrale, per un’opera letteralmente monumentale: Sputo sulla mia tomba si compone d’un autoritratto scultoreo, pericolosamente proteso fra lapidi debitamente incise. Si dirà che non convincono appieno un paio d’opere: l’una concertata da una coppia di lattee figure attraversate e ferite da vetro e lame (Sculture delle lacrime II (Ivana e AJan Fabre - Mi sono lasciato drenare – 2007 - 165x56x50 cm - ferro, poliestere, capelli umani, vetro, tessuto, pompa e sangue finto nnabella), 2006); l’altra del 2004, a disporre parti d’armature -dorate, ancora- adagiate su un letto di legno (Sanguis / Mantis landscape (Il campo di battaglia), 2004), per un’installazione che soffre un poco del ridotto spazio a disposizione, impedendole di dispiegare appieno la propria forza evocativa. Al di là di ciò, è con la doppia climax a cui s’accennava che queste incertezze sono superate d’un tratto. Da un lato, un altro ritratto iper-realista e scultoreo dell’artista (Mi sono lasciato drenare, 2006), colto mentre osserva da presso, troppo da presso un dipinto, così da fratturarsi il naso (ex-pònere significa anche e soprattutto pretendere dall’osservatore uno sforzo, “fino a farsi scoppiare gli occhi, a trivellarsi il cranio”, scriveva nel 1929 Roger Gilbert-Lecomte). Dall’altro lato, un tributo mozzafiato alla vita (Il reclamo / protesta dei gatti randagi morti). Ma come? –si dirà– è una crudele teoria di felini impagliati, derisi, violentati, appesi a ganci da mattatoio, spietatamente sottoposti al peso tagliente di lastre vitree. Sfidate l’oftalmìa, obbligatevi a osservare: è nuovamente un’esibizione impudica di vitalismo, quella di Fabre. Disperata e caustica quanto si desidera, ma pur sempre tale. “Qui si espone l’impossibilità strutturale di ogni lavoro del lutto”.

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Guarda il servizio video di Exibart.tv sulla mostra, con un’intervista all’autore

marco enrico giacomelli
mostra visitata l’8 giugno 2007


dall’8 giugno al 23 settembre 2007 – Jan Fabre – Anthropology of a Planet
A cura di Giacinto di Pietrantonio
Palazzo Benzon, San Marco 3927 – Calle Benzon – 30124 Venezia
Orario: da martedì a domenica dalle 11 alle 19 – Ingresso libero
Info: tel. +39 035270272; www.gamec.it
Catalogo in mostra


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