Questa volta l’appuntamento per l’inaugurazione, alla Galleria Perugi, è spostato un’ora più tardi. Non è un dettaglio trascurabile, perché le numerose candele che illuminano l’ambiente interno necessitano del buio che le grandi vetrate dell’ex garage non permetterebbero a un’ora del giorno ancora assolata. La parata notturna di
Kensuke Koike (Nagoya, 1980; vive a Venezia), dislocata sulla parete espositiva, trova in questo modo il suo complemento appropriato, per coinvolgere i visitatori in un’atmosfera godibile e di apprezzabile coerenza suggestiva.
La manipolazione a cui l’artista giapponese ci aveva fin qui abituato – dove, spesso, due diverse immagini si univano in dittici, per dar vita ad accostamenti di grande potenziale immaginifico, talvolta anche dal sapore ironico – si evolve, ora, proliferando in una moltiplicazione all’ennesima potenza degli scatti fotografici. Concentrandosi sui dettagli, minuziosamente assemblati per creare esseri deformi e mostruosi. L’ispirazione di cui Koike s’avvale trova radici nella tradizione giapponese, letteraria e orale, dello yōkai, riunita originariamente nel XVIII secolo da Toriyama Sekien nel libro
La parata notturna dei cento demoni.
Il collage serve a Koike per comporre i personaggi: Haikume, il mostro dai cento occhi, Maikube dalle tre teste, Gama Sennin, l’uomo rana, e Gotaimen, la pancia-bocca, sfilano giocosi ma composti con i loro compagni Te-naga Ashi-naga (dagli arti lunghi) e Ippon-Datara, che è una sorta di Polifemo giapponese; mentre, in primo piano, domina il testone di Ookubi. In rigoroso bianco e nero – osservato anche nell’autoritratto allestito nell’ufficio della galleria, oltre che nella scelta di non esporre in questa mostra un’altra opera che invece è a colori -, la composizione occupa pacatamente lo spazio, mantenendo un ritmo che, memore della scrittura giapponese, corre da destra a sinistra.
Dalla parata demoniaca di Koike si passa all’installazione di
Maddalena Fragnito De Giorgio (Milano, 1980). Trattasi di un lavoro composto da una serie di porte che, rappresentate dopo l’apertura di un ipotetico ingresso, cadono, in sequenza, sul pavimento.
L’opera dell’artista milanese è parte del suo nuovo progetto
Invisible Doors of Visible Places, in cui, partendo dal disegno, realizza installazioni dove le porte divengono metafore di conseguenze diverse, a seconda delle corrispondenti scelte intraprese.
Riflettendo su quel limbo temporale, quel momento critico in cui è necessario prendere una decisione, il topos della porta è ripreso con una pratica capace di declinare con sorprendente efficacia le incognite e le possibilità che ci troviamo ad affrontare nel nostro quotidiano. Tanto da far pensare che, sotto questa cascata di porte, sul pavimento, ci potrebbe facilmente stare qualcuno di noi. Nel momento in cui si ritrovasse ad avere così tante possibilità da esserne inevitabilmente travolto e spiaccicato a terra.