Einmal ist keinmal: il proverbio tedesco diventava, nel celebre romanzo di Kundera
L’insostenibile leggerezza dell’essere, la sentenza in grado di rendere ogni scelta impossibile. Se la vita è una sola, ogni azione si equivale ed è priva di significato. Il titolo della mostra veneziana si contrappone a questo verdetto, trovando nel femminile la capacità di assumersi la responsabilità di ogni scelta, anche di minimo rilievo, e di sostenerne la leggerezza.
Ma è soprattutto l’intraducibile sottotitolo,
Den Raum beleben, il vero filo conduttore. Il verbo tedesco
beleben significa “animare”, “ravvivare”, ma con una radicalità che in italiano si perde. Per le opere coinvolte in mostra, infatti, non si tratta semplicemente di rinnovare lo spazio, di renderlo più accattivante o stimolante, ma di dargli nuova sostanza, di ripensarne in modo estremo il concetto e le possibilità. Per questo, nonostante la mostra parta dal confronto con lo spazio specifico di un antico palazzo, si apre a tutte le sue declinazioni, spaziando dall’architettura al paesaggio naturale o interiore, dallo spazio pubblico o all’intimità di un luogo privato.
Nonostante qualche forzatura, nel suo complesso la collettiva offre un ricco panorama di reinterpretazioni dello spazio, dalle più intime ed esistenziali fino alle più concettuali e distaccate, mettendo a confronto prospettive diverse l’una accanto all’altra, procedendo per giustapposizioni e non per corpus tematici omogenei.
Un nucleo significativo di opere reinterpreta gli spazi dell’architettura e il loro rapporto con l’uomo. Negli scatti di
Candida Höfer, dedicati ai vuoti interni degli spazi pubblici, si avverte innanzitutto la straniante ed eloquente assenza dell’uomo. In
Urban Pornitecture,
Anila Rubiku ricama disegni pornografici su mappe e silhouette di edifici-icona di alcune delle maggiori città europee, svelando i desideri, la sensualità e le paure che tali strutture nascondono dentro di sé. Nelle slide di
Katharina Sieverding, lo spazio architettico si fonde con la figura umana, in immagini che insistono sui forti contrasti di luce e sulla presenza di volti proiettati su edifici o all’interno di cartelloni pubblicitari. Nelle fotografie di
Francesca Woodman lo spazio diventa proiezione della propria psiche, luogo in cui prendono forma i fantasmi della mente e vengono amplificate fobie e ossessioni.
Un altro gruppo di opere assume lo spazio come luogo di narrazione, come fosse un palcoscenico su cui mettere in scena il proprio immaginario. Come nel video di
Tessa Manon den Uyl, in cui interni ed esterni diventano scenari dove far rivivere i quadri e l’immaginario di
Bosch, in un’atmosfera surreale che trasforma perfino la percezione dello spazio in uno strumento poetico. In modo opposto, gli oggetti di
Letizia Cariello si sottraggono a qualunque narrazione, caratterizzandosi come pure riflessioni sullo spazio, come nel
Tavolo fantasma, che pone l’accento sulla semplice presenza di un oggetto totalmente sbagliato e inutilizzabile.