Un itinerario dal sapore periegetico nel ventre storico della città. Alla ricerca d’identità assolute e definitive, delle quali solo la fotografia, nell’era dell’immagine, può essere garante, cogliendone e ricomponendone però le forme assunte lungo il loro frammentato tragitto. Talvolta reso eterno, oltre l’attimo dello scatto; talvolta distillato dal tempo, che ne modifica e stravolge l’origine stessa.
Come in
The Oxford Project, in cui il fotografo americano
Peter Feldstein ritrae nel 1984 e successivamente nel 2005, pazientemente e democraticamente, tutti i 676 abitanti della piccola e rurale cittadina dell’Iowa. Del ventennio trascorso non sono le rughe a raccontare le esistenze, e nemmeno le pose, identiche a distanza di anni; piuttosto, gli sguardi fissi su obiettivi smarriti nel tempo. Lo scrittore Stephen G. Bloom intervista i soggetti, i quali – intuendo lo spirito sociologico del progetto, vicino alla
straight photography di
Walker Evans,
Mike Disfarmer o
Dorothea Lange – si raccontano senza indugi. Nei trittici che ne conseguono, le identità appaiono spesso indeterminate, nascoste dietro copioni esistenziali accettati con rassegnazione. La fotografia, più certa della parola, con l’ineludibile sincerità del bianco e nero, documenta.
Tanto vittime della cronicità del tempo sono questi scatti, quanto immortali sono invece quelli dei
Portraits del canadese
Douglas Kirkland:
divinità antropomorfiche discese dai rispettivi set, scandagliate nelle pieghe psicologiche dell’animo, fino al punto in cui l’io-personaggio si ricongiunge all’io-persona, decretandone la forma, conferendo verità alla presenza, cristallizzando nel tempo un’identità certa e immutabile. La bionda Marylin come la bionda Jolie. Nicholson come De Niro. Bono come Jagger. Da Coco Chanel in poi sono tutti presenti, ciascuno interprete delle proprie complessità. Già archetipi, consensualmente celebrativi dell’individuo nel tempo e dei tempi (
mores) nell’identità, negli stessi luoghi e nei momenti dei quali siamo anche noi spettatori o protagonisti.
Rivestendo talvolta il duplice ruolo, come nel caso dei
Dieci Fotografi d’oro (dodici, in realtà, esposti in collettiva nelle sedi della Galleria Cavour e del Museo Diocesano), reporter storici di miti nati e morti nel tempo, d’identità forgiate dalla storia e sfatte dal decadimento delle culture, dall’azione acida di conflitti, reali o ideologici. La presa di distanza immediata dalle forme della rivoluzione ungherese del 1956 (realmente scaturita contro l’appiattimento totalitarista delle identità) che
Mauro De Biasi riporta violenta e cruda, e dalle antinomie culturali della popolazione rom di
Gianni Berengo Gardin dialoga con l’animo identitario e comune delle genti del Mediterraneo evidenziato da
Fulvio Roiter.
Con l’identità urbana evocata dalle sironiane periferie milanesi di
Gabriele Basilico e dagli scorci cromatici e soleggiati (geometrie silenti) di
Franco Fontana, dalla città in “disuso” di
Guido Guidi, dai paesaggi sentimentali di
Giovanni Chiaramonte, che nella natura (infinita) si perde e ritrova la propria origine, contrasta invece
Mario Cresci, che nei differimenti temporali, nei giochi di luci e ombre, sospende luoghi e persone in metastorie senza epilogo.
Marco Zanta cerca forme definitive e definite in ciò ch’è stato o sarà (l’identità non si radica solo nel presente), così come
Luca Campigotto riscopre le identità dei luoghi, ricollocandoli in dimensioni scenografiche e teatrali; piccole tracce culturali che la fotografia ingigantisce ed enfatizza.
Ecco allora svelarsi, nelle fisionomie marmoree eppure vive di
Mimmo Jodice, erose dal tempo e private della cifra solenne della classicità, così come nei volti di
Paolo Gioli, filtrati costantemente da
qualcosa che dilata l’attimo percettivo: l’idea d’identità come punto ultimo di un lento processo in divenire, di cui ogni scatto è irrinunciabile fotogramma.