Ettore Spalletti (Cappelle sul Tavo, 1940) si dimostra scultore che riesce coniugare senza mezzi termini il verbo minimalista e concettuale, dimostrando un’intensità e una perseveranza, nella ricerca e nei risultati, che va ben al di là della semplice adesione estetica. È infatti feroce la compressione emotiva alla quale lo spettatore viene indotto, ricorrendo a un bagaglio minimo di possibilità, a una palette cromatica drammaticamente ridotta all’osso o a una volumetria essenziale. La personale in galleria raccoglie lavori realizzati nell’ultimo decennio con altri appositamente studiati per la mostra, nella quale spicca un particolare allestimento
in vitro che ricorda, per l’aurea suggestiva e l’illuminazione fetale, i celeberrimi ambienti di
Lucio Fontana. I lavori, siano sculture o pittura monocroma su tavola, sono improntati a una rigida austerità, evidenziata da tratti rettilinei e spigoli vivi, tali da sottolineare sempre l’istanza volumetrica e geometrica, e dall’uso di colori mai saturi. È questo il caso della serie di alabastri di piccole dimensioni (una trentina di centimetri) sui quali l’artista ha steso impasti di pigmento con piccole sfumature di bianco, o delle tavole lignee ricoperte di colore rosa a tinte rigorosamente piatte.
Spalletti sembra invece cambiare registro in
Fonte, così com’è, già esposta in occasione dell’inaugurazione dello spazio in primavera, che si dimostra probabilmente l’opera più suggestiva, forse perchè meno declinata sulla dimensione minimale. In questo caso, infatti, il silenzio della scultura, un tronco di cono rovesciato di color blu, è animato dal leggerissimo gorgoglio dell’acqua che si agita sulla superficie e che fornisce una sintesi, icastica e pregnante ma anche visiva, dell’
idea di fonte.
Le trame e gli intrecci delle strade e delle abitazioni, le matrici geometriche della città e dei palazzi che sfociano nel mare o sublimano nel vulcano innevato. Sono questi i soggetti dei
ritratti di Napoli realizzati da
Vincenzo Castella (Napoli, 1952), alcuni dei quali stampati in grandissimo formato (ben oltre i due metri).
Sono viste della città dall’alto, inevitabilmente architettoniche nel taglio analitico, anche se l’architettura urbana è solo un modo per confrontare le texture, le analogie cromatiche e visive che sottendono l’interpretazione antropologica del cambiamento e della somiglianza dei luoghi. È una forma di confronto con gli sguardi di chi vive, nasce, vive e muore in queste trame. Castella ribalta così la vista, la riparametrizza per spiegare che, come egli stesso scrive, “
la città è ormai una forma di linguaggio”, inevitabilmente autonomo. Così il Vesuvio innevato può ricordare -tanto alla prima impressione quanto in ultima analisi- il Monte Fuji e i colori a bassa saturazione delle stampe fotografiche realizzate dell’autore delle (post)moderne xilografie incise al banco ottico.