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Fino al 24.XI.2013 | César Meneghetti, i/o_io è un altro | Isola di San Servolo, Venezia, Padiglione del Kenya, Isola di San Servolo

di - 23 Luglio 2013
Vi è mai capitato di camminare per strada da soli e incrociare una persona che non può camminare, trascinata in modo disperato da qualcuno che l’accompagni, e di guardare le loro facce? Vi è mai successo di chiedervi chi dei due in quel momento fosse veramente fermo? A me capita spesso. Mi capita spesso anche di pensare che se tutti i difetti morali avessero una manifestazione fisica, dei normali non ne resterebbe uno. Ci sarebbe qualcuno senza una gamba o braccia, qualcuno senza una mano, qualcuno senza bocca, senza occhi, senza orecchie, senza naso, con la pelle bruciata, il volto senza tracce d’espressione, gli occhi incavati, senza volto o solo fatto di volto, o solo di schiena o solo di sesso. Descrivere questo lavoro e parlarne è un atto che rischia di essere retorico, pleonastico e noioso, perché deve arrivare un momento in cui i muti parlino e tacciano i noiosi.

Opera #01, Videobox (38 minuti).
César Meneghetti a San Servolo – isola che ora ospita fra altre istituzioni la Fondazione Franco e Franca Basaglia, sede di un ospedale prima militare, poi manicomio maschile e femminile, – presenta una serie di opere in sequenza di tre video installazioni. Ognuna di queste installazioni è pensata come parte di un processo sottoposto a verifiche ricorsive. Il video è una delle tracce possibili di un lungo processo di avvicinamento e dialogo empatico, in cui lo spettatore diventa osservatore e osservato, seduto con curiosità e poi crescente imbarazzo su una sedia da sanatorio o da scuola, illuminato come in un interrogatorio. Il primo video-box è infatti una prova di desoggettivazione, in cui chi guarda è costretto prima di tutto a interrogarsi sullo statuto e la legittimità della sua presenza e del suo guardare. Interrogante si ritrova interrogato dalla presenza nuda e fuori di ogni retorica di persone sedute come lui, che provano a fargli capire cosa significhi sentire la mancanza di tutta la pienezza delle facoltà degli altri, ma anche la ricchezza di questo sentire che per difetto diventa capace di tutto il resto, di tutto quello che per mancanza i diversi vivono con più forza.
La posizione di chi guarda diventa di silenzio, un silenzio commosso dall’atto di dire la verità, di interrogare il proprio passato, il proprio presente, il proprio futuro, fino alla perdita del sé protetta dalla camera oscura e lenta nel suo accadere in 38 minuti di risposte a domande di cui sentiamo solo l’ultima a proposito dell’identità. A parlare sono i componenti dei Laboratori d’Arte della Comunità di Sant’Egidio, alcuni dei quali hanno passato la loro infanzia e prima età adulta in manicomio. Sono seduti in uno split-screen, a gruppi di quattro e a grandezza un po’ più che reale, ma la loro grandezza suggerisce dignità morale. I muti qui parlano, i noiosi o quelli che hanno sempre molto da dire, tacciono.
Opera #10 – Invisibilità (10 minuti).
La seconda installazione è una riflessione insieme sulla trasparenza dell’immagine e del sé che l’immagine rappresenta. Il video restituisce alcuni esperimenti del laboratorio in cui tutti danzano o si muovono bendati, proprio perché sottrarre la luce forse implica una ricerca del senso dello spazio in altro modo. l’estetica della privazione rende liberatoria l’esperienza di un black box che da sottrazione diventa restituzione del senso di realtà delle immagini, l’immagine del video è esattamente quella sottratta dalla benda. Una restituzione dell’illusione del vedere.
Opera #07 – Sette (7 minuti).
La terza installazione mostra le stesse persone che da ferme restituiscono figure con le mani e le braccia, questa volta sono più piccole di chi guarda, ma sono tante. Queste figurine, quasi ferme ma danzanti, interrogano la corporeità, il senso e l’efficacia del gesto quotidiano. Si merita la normalità? Si merita un corpo forte? Serve essere forti e normali per la danza? Se il corpo è solo un’illusione come l’immagine digitale è solo l’illusione di un codice binario, cosa resta di tutto quello cui siamo fisicamente attaccati e che chiamiamo io? In questo modo siamo ricondotti alla domanda finale del primo video. In una struttura circolare ma spiraliforme e aperta verso il fuori, l’altro, l’esterno, l’impermanenza di tutte le cose, dell’io e del tu, del prima e del dopo.
Il bel catalogo (Maretti Editore), su progetto di César Meneghetti, curato da Lella Antinozzi, Cristina Cannelli, Simonetta Lux con la collaborazione di Antonella Antezza, restituisce il senso e il significato più vasto delle installazioni, raccontando molte delle altre storie possibili, aprendo altri sguardi e altri I/O possibili.
Irene Guida
Mostra visitata il 23 Giugno 2013
César Meneghetti, i/o_io è un altro
Isola di San Servolo, Venezia
Commissario Antonio Arévalo
Curatori Simonetta Lux e Alessandro Zuccari
Orari: dalle 10.00 alle 18.00, chiuso il lunedì.

Ha collaborato con Duel, Duellanti, D’Architettura scrivendo di spazio e arte. Collabora con Exibart dopo aver pubblicamente richiesto a Germano Celant di firmare una dichiarazione che ripetesse le sue parole “Ragazzi, l’arte, in fondo, è artigianato”. La richiesta non è stata esaudita. Ha inoltre studiato presso l’Università IUAV di Venezia, dove ha seguito il laboratorio di Joseph Kosuth e ha conseguito un dottorato in Urbanistica nel 2012, dopo un periodo di studi negli Stati Uniti presso la UMBC di Baltimora e la New School di New York. Svolge attività didattica e di ricerca all’Università IUAV. Fra i suoi testi, Corridoi. La linea in Occidente, Quodlibet, Macerata 2014.

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