La retrospettiva veneziana di
Lawrence Carroll (Melbourne, 1954; vive a New York e a Venezia) si apre curiosamente con un tributo a un artista che l’autore indica come “
di riferimento” ma che candidamente non ci saremmo mai aspettati, tanto grande è la distanza -di età ma anche di poetica e
modus operandi– che li separa. Dopo una prima sala con un’opera dalle dimensioni monumentali che funge da biglietto da visita, è infatti un’asciutta natura morta con bottiglie di
Giorgio Morandi ad accogliere il visitatore, la cui sobrietà e compostezza dei toni è in realtà un anticipo della mostra che segue. Come sottolineato in catalogo, i due autori sono accomunati anche dal fatto di realizzare personalmente i telai, nonché di utilizzare sempre gli stessi semplici oggetti per sviluppare composizioni sobrie e statiche, sulle quali l’occhio indugia senza alcuna
souplesse.
La mostra si sviluppa con un approccio essenzialmente installativo, in cui risultano di particolare interesse le relazioni volumetriche e di materiali che intercorrono tra le opere. Le materie che costituiscono tanto la pittura quanto la scultura di Carroll sono facilmente elencabili (tela, olio, legno, cera, filo di ferro, plexiglas) e sono costantemente impiegate con un lavoro che si potrebbe definire di natura essenzialmente processuale.
Ma, pur sviluppando una grande proteiformità spaziale, è paradossalmente poca la differenza che intercorre nella percezione dell’osservatore, tanto da avere l’impressione che l’artista stia in realtà realizzando -sebbene in diversi microcosmi contingenti- sempre la medesima opera, o variazioni su un unico tema dato, con notevoli affinità a ciò che avviene nella pratica musicale.
L’allestimento della mostra è stato quindi pensato, in maniera molto raffinata, come combinazione di piccoli sviluppi di una serie, e ciò fa percepire le opere collocate in ogni singola sala (che sono distanti nel tempo, nelle dimensioni, nelle forme) come una unità cogente, una sorta di minimo sintagma capace di senso, in cui le variazioni sono ridotte all’osso.
Ecco così delle foglie di edera verniciate dentro una cassetta che è anche una teca, o pezzi metallici inserirsi su tavole dipinte dall’aspetto consunto; o, ancora, secchi di plastica penzolare dalla recente ed enorme
Untitled di oltre quattro metri di larghezza, in cui sono collocati oggetti d’uso comune (come frequentemente capita nel lavoro di
Robert Rauschenberg) quali scarpe, cassette di legno, teli di nylon. E forse anche bianche e rotonde palle di neve. Solo che, essendo a Venezia, sono in limatura di vetro di Murano.
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ma come cavolo scrivi!!!! sui custodi hai ragione però!
Essendo di classe sia opere ed allestimento (se non fosse per i testi interpretativi i quali, come dichiarato nel catalogo, dovrebbero costruire un ponte tra l'artista e lo spettatore), lo scarso "contrasto" con la essenzialità e la struttura a piccole stanze laterali destre del Correr che impedisce lo sbirciamento progressivo come in altri musei, costituisce un girare ogni volta l'angolo in un'altra raffinatezza (mentre, ad esempio, per la mostra di Lucian Freud portava aspettativa di nuova possibile rivelazione).
Per questo, tanto più, ed in generale spero di essere stata testimone di un caso unico e disgraziato, i custodi che recriminano a voce alta mentre seguono a coppia i visitatori per le stanze e gli addetti ai vigili del fuoco che passano a controllare le uscite di sicurezza ridendo e, secondo loro, sbeffeggiando l'artista (in particolare l'opera con i secchi)sono stati trauma e disrispetto per noi presenti.