Il raccordo con
La casa delle belle addormentate di Yasunari Kawabata è anche troppo scontato per questa mostra dell’artista giapponese
Miwa Yanagi (Kobe, 1967). La presenza ostinata della realtà vissuta a cavallo del sogno, il legame schizofrenico con la tradizione, l’immagine delicata e floreale della gioventù in contrapposizione a una vecchiaia trascinata ma riflessiva e a caccia di stimoli sessuali nuovi, puri, balzani sono elementi che accomunano questi autori di epoche e matrici differenti.
Anche perché, per Yanagi come per Kawabata, la vecchiaia rappresenta motivo di riscatto, al punto che l’artista sembra voler sovvertire il rapporto con essa, passando dal classico esorcismo a un ammiccamento sexy, ricco di
sense of humour. Suggerisce perciò alle sue belle di sognare a occhi aperti, immaginando come vorrebbero essere “da grandi” -o, più che altro, da nonne- e si adopera per trasformare tali fantasticherie in realtà grazie a trucco, effetti speciali e olio di gomito.
La risultante è una serie d’immagini in cui al complesso apparato scenografico si fondono molteplici livelli di lettura. Dietro la signora acconciata in puro stile
Diavolo veste Prada che sfila sulla propria lapide tombale, trasformata in passerella, dietro la società perfetta tutta al femminile, dietro all’anziana raccolta e oppressa nella propria stanza dei ricordi c’è un Giappone ripresosi da poco dalla crisi economica degli anni ’90, una nuova generazione sclerotizzata dall’assenza di valori e dalla presenza ingombrante di una tradizione affascinante ma anacronistica, che si rifugia nella desolazione di gruppo, nel kitsch portato al parossismo, nella creazione di una microsocietà alienata dove l’estetica applicata a tutti gli aspetti della vita quotidiana è il motore delle relazioni sociali e il lubrificante di ogni rito collettivo.
Ma non solo. Nelle opere della Yanagi c’è anche una critica alla condizione della donna in Giappone, a suo parere non ancora completamente sdoganata da quel ruolo subordinato che la vedeva relegata all’ambito domestico e le impediva la realizzazione professionale. È la vecchiaia, come l’esclusione dell’elemento maschile dal contesto utopico dell’immaginario femminile, il paciere delle nevrosi storiche e sociali, la via di fuga da una realtà che non piace. Solo nella propria proiezione futura, a cavallo tra la vita e la morte, raggiunta la vera saggezza, lontano dal maschio, dalle sue lusinghe e dalle sue croci, le protagoniste di Miwa Yanagi si sentono finalmente realizzate e soddisfatte di sé, vivaci, consapevoli e indipendenti.
In barba, finalmente, all’isterico ménage quotidiano di diete e lifting, shopping e botulini. E al mito, fiacco e stantìo, dell’eterna giovinezza.