Medhat Shafik (El Badari, 1956; vive a Milano e Il Cairo), vincitore del Leone d’oro per il Padiglione egiziano alla Biennale di Venezia del 1995, giunge a Palazzo Forti. Dov’è di casa, visto che la sua suggestiva installazione
La dimora del poeta nella Sala dell’Orgia fa parte della collezione permanente. In questa personale, attraverso sette istallazioni, ritma un viaggio dell’anima.
Da artista “drammaturgo” qual è, crea trame architettoniche dove accorda la dimensione dell’io a quella cosmica: “
Raccolgo pezzetti di vetro dalla risacca del mare; sono residui, scaglie di emozioni, metafora dei nostri cocci e, come chi si accinge a un’opera di restauro, avvicino i frammenti”. Ciò che la nostra civiltà considera scarto, oggetto già consumato, viene recuperato, salvato dal naufragio della dimenticanza e inserito, con la densità del suo vissuto, per infondere nuove tracce a una storia.
In un percorso in cui è il passato sedimentato a dare origine al presente, prendono vita città di legno, carta e tessuti, stratificate di storie di popoli e individui. Sono invisibili come
Le città omonime di Calvino, con le quali condividono l’atmosfera emozionale, e poetiche come i mondi di
Paul Klee; conoscono i linguaggi creativi di
Rauschenberg,
Pollock,
Prampolini, come quelli dei legni bruciati di
Tàpies, e levitano tra metafora e utopia. Prendono forma dal desiderio e l’essenza di ciascuna non si svela con la sola descrizione.
Si passa per
La città e i profumi, cupola-scrigno di sottili trame in ferro, esili configurazioni delle nostre strutture esistenziali, dalla quale pendono ampolle di vetro trasparenti che inebriano l’aria di essenze aspre e dolci; ci si arresta spaesati davanti all’oscillante imponenza delle
Porte di Samarcanda e dei loro simboli astrali. Le porte non vogliono essere limiti, ma soglie, passaggi dove rumori di genti e suoni invitano all’accesso in luoghi sconosciuti, in un altrove fatto di mercati, spezie, masserizie, miraggi nel deserto, richiami, canti di donne e bambini. Attraverso le
Porte del paradiso, lavorate con legni-totem che lasciano le loro tinte e i loro umori su garze-sudari, si giunge alla
Barca. In cellulosa di cotone, evoca Ulisse e l’attrazione umana verso l’ignoto, verso il viaggio che è insieme desiderio e paura. Sospesa sopra “il sale della terra”, la sovrasta leggera il suo doppio, eterea nuvola che, come idea platonica, rimanda a un altro da sé.
Si procede attraverso le scritte talismaniche della
Terra dei sumeri che conducono alla
Città proibita di sabbia e oro, unione di Oriente e Occidente, al quale un’umanità in cammino tende. Generoso di offerte alle divinità, l’
Albero scavato è divenuto desco, mentre un sarcofago blu lapislazzuli sospeso con fili di pescatore contiene l’immagine simbolica dell’
Origine del mondo, omaggio al famoso dipinto di
Courbet, Grande Madre e Madre Terra, matrice e fine di ogni viaggio.
Shafik, nomade nel mondo con la linfa delle sue radici d’Oriente, custodisce e compone i segni del suo vivere con ciò che il passato deposita, sapendo che recuperare il mito è dar senso all’oggi. Per salvare i popoli tutti dall’ibridazione e dal baratro.