Se è vero che nel mondo vige la più radicale accidentalità,
nell’arte invece sembra che nulla possa mai essere del tutto accidentale. In
altre parole, esiste una forma di determinismo psichico nell’atto creativo,
ovvero meccanismi che presiedono alla creatività, e nessuna opera d’arte può
definirsi totalmente casuale.
Questo ragionamento vale sicuramente per
Gianni Dessì (Roma, 1955), i cui lavori
esposti in
Tutto in un fiato ben si prestano a rappresentare l’allegoria della
creazione artistica. Esempio emblematico è la
camera picta, vale a dire un “contenitore”
creato nella galleria veronese, al cui interno non si danno definizioni dell’arte,
ma la rappresentazione geometrica dell’atto creativo, espressa in lunghe linee
ellissoidali di colore bianco che, correndo lungo le pareti e prolungandosi sul
pavimento, amplificano le possibilità tridimensionali e sensoriali offerte dall’intervento
installativo.
La stanza rossa, in quanto simbolo del cervello e dei suoi
dinamismi, contiene le linee attraverso le quali s’irradia l’energia creativa,
i canali nei quali “scorre” l’immaginazione, che si viene configurando come un
fiume in piena che lambisce con le sue acque le varie pareti del “cervello-contenitore”,
per poi fluire e forse placarsi nell’opera d’arte.
Lo spazio dell’esperienza percettiva ne risulta espanso,
il punto di vista è raddoppiato, il colore “esterno” (delle pareti) coincide
con quello “interno” (dell’osservatore e dell’artista). Si dice infatti che il
rosso sia il colore che più di tutti eccita il sistema nervoso centrale. Vi
sono poi due aperture che simboleggiano sia la prospettiva dell’artista nell’atto
del creare che quella dello spettatore nell’atto di osservare e relazionarsi
con la configurazione dello spazio. Mai come in questo caso l’installazione si
configura come un prolungamento dell’atto creativo, riproponendo i “percorsi
neurologici” dell’immaginazione e della fantasia dell’artista.
Se nella
camera picta l’atto di conoscenza si può
indovinare sul piano astratto della visione, nella grande scultura
Confini I si deve invece vedere o
interpretare direttamente la figura: lacerata ed essenziale nelle sue strutture,
si manifesta sotto forma di ferro, fibre di agave, legno e resina, nella
consapevolezza di poter apparire come simbolo gigantesco della conoscenza e
della ricerca intellettuali.
Di fatto, questi enormi brandelli di corpo (i piedi, le
mani, le dita) sembrano inoltrarsi nello spazio espositivo istintivamente e
senza scopi, legati a doppio filo alla facoltà del desiderare e del ricercare.
Ma poi si ricompongono in figure intere, come in
Intreccio (2007) o in
Trama a vista (2009). Ancora una volta, l’energia
s’incanala, si concretizza, si placa per un momento.
Se così non stessero le cose, ovvero se l’atto creativo
non avesse scopo e non pervenisse a un qualche risultato, se non avesse poi il
carattere di simbolo e non portasse in sé la matrice della conoscenza e dell’appagamento
del piacere estetico, l’artista non sarebbe molto distante dallo scienziato. E
si accontenterebbe di rilevare nuove connessioni fra le cose e gli eventi,
utilizzando le proprie facoltà per avventurarsi nella ricerca, all’infinito.
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bella schifezza...e' un arredatore di negozi fornarina.
curata da Lóránd Hegyi... no comment
Bella mostra! Da vedere! :-))))