La vita di
Maja Bajevic (Sarajevo, 1967) è segnata dalle esperienze cosmopolite della propria giovinezza e dalla distanza -dovuta anche alla guerra nell’ex Yugoslavia- dai luoghi d’origine. Alla luce di questa premessa, ma senza voler essere deterministi, è possibile cogliere con maggiore lucidità la sua poetica, caratterizzata da una costante riflessione sull’identità di donna, sul senso di luogo e confine.
La forzata cesura con il proprio luogo di provenienza sembra essere fra le leve più forti per un approccio all’arte che è di natura critica, interrogativa, in ultima istanza
politica. I suoi lavori, che quasi snobbano o trattano come periferiche le questioni estetico-percettive, sono costruiti progettualmente e coerentemente attorno a temi con ricadute socio-culturali, che vengono però declinate sottotraccia e senza dare la benché minima sensazione di pesantezza o eccesso didascalico. È il caso della serie di foto
Merry Christmas and a Happy New Year (2004-2005), che ritraggono case nei dintorni di Sarajevo in parte ricostruite dopo la guerra. Tra le brutture architettoniche e i lavori incompleti o abbandonati (le case sono al grezzo, senza intonaci, e ricordano molte delle situazioni di degrado a cui certe zone del nostro Paese non sono estranee), spuntano invece le luci di Natale, le stelle comete colorate, i festoni che addobbano le case. E così, in un solo momento visivo, le speranze per un anno nuovo e migliore, che i colori delle insegne luminose sembrano attendere, devono fare i conti con una realtà più avara di qualsiasi sogno.
La sala successiva ospita invece i video che testimoniano le performance
Women at Work, in cui l’artista ha chiesto la collaborazione di donne rifugiate per ricamare le impalcature della National Gallery della Bosnia Erzegovina, per lavare -fino a lacerarli- dei panni su cui erano stati scritti motti patriottici dei tempi della dittatura di Tito, o per mettere in scena la realizzazione del secentesco
Regentesses of the Old Man Almhouse di
Franz Hals. In tutti e tre i casi, le donne partecipano con un lavoro (il ricamo, il bucato) che è stato culturalmente affidato al genere femminile, anche se l’attività si dimostra incapace di portar loro tangibili benefici. Anzi, lo status di rifugiate rende ancora più precarie le loro condizioni e l’effetto è, per assurdo, quello di peggiorare il proprio isolamento.
Imperdibile il video
Here’s to Looking at You, Kid in cui, inquadrata frontalmente, Bajevic si tinge il viso di nero, fino quasi ad avere due enormi macchie sotto gli occhi, che sembrano tanto lacrime quanto paurose escrescenze.
Ma la mostra probabilmente potrebbe essere già finita all’ingresso. Il piano nobile del palazzo è infatti occupato da un’installazione realizzata il giorno della vernice da Bajevic insieme alle donne della sorveglianza: a un metro da terra è stato collocato un reticolo di lucidissimo filo spinato, pronto a grattare la pelle dei visitatori, e che però è stato avvolto, durante una performance durata tutta la giornata, dal filo di lana che le donne hanno intrecciato su quello metallico.
Ancora lavoro femminile, ancora la capacità delle donne di addolcire e rendere più umana la realtà. Non rimane che inginocchiarsi a meditare e guadagnare l’uscita strisciando sul pavimento.