Correva l’anno 1925 quando Parigi ospitava la celeberrima
Exposition Internationale des Arts Décoratifs et Industriels des Modernes, con i suoi trionfi ebanistici e modaioli, emblema conclamato della raffinatezza francese d’inizio secolo. Forse sul momento non ci si accorse – la tendenza fu battezzata solo negli anni ’60 – di quanto il Salone, coronamento di un gusto nato tre lustri prima dalla mano dello stilista
Paul Poiret, avrebbe creato un’estetica destinata a dominare l’intero periodo tra le due guerre.
Eppure così fu. E per un motivo semplice: la nuova arte coniugava il bello con il moderno, col funzionale, col progressista. Erede delle avanguardie, del Futurismo e dell’Art Nouveau, rispondeva alla fame di eleganza d’una borghesia colta, che credeva tanto nella grazia del classico quanto nelle nuove e accattivanti geometrie contemporanee, nel fascino del meccanico e nella verticalità della metropoli.
La mostra di Rovigo, che riprende il filone delle declinazioni “italiane” dei fenomeni d’inizio Novecento, sciorina non solo gli opalescenti vasi firmati da
Giò Ponti per Richard Ginori o le preziosità vetrarie buranesi di un
Vittorio Zecchin (sovrani dei salotti che contavano, a cominciare da quelli dannunziani), ma la pittura e la scultura, connotate in tutte le citazioni possibili, dal Cubismo ai fauve, dal decorativismo floreale (
Galileo Chini,
Giovanni Guerrini,
Guido Cadorin) ed etnico (ancora Zecchin) alla plasticità visionaria e metafisica di
Ram e
Massimo Campigli.
Molte le opere notevoli. Come l’
Erma per fontana (1920) di
Duilio Cambellotti, sintesi estrema e levigatissima di severità neoclassica, suggestioni greco-arcaiche e geometrismo spinto. O gli ologrammatici lavori di
Sexto Canegallo, pietre preziose che scompongono la figura in una miriade di raggi cosmici, tanto ammiccanti al Futurismo quanto poetici e visionari.
Trionfa, come nella passata mostra sulla Belle Époque, la donna nel suo nuovo canone di bellezza: agile, androgino e atletico, incarnato pallido e capelli alla maschietto, colore dominante il nero. Così, di fianco al coloratissimo e decadente mondo, pieno di oggetti e sguardi vacui, di
Mario Cavaglieri (
Estremo oriente, 1922) e al sognante, klimtiano
Nudo femminile (1915-20) di
Giuseppe Amisani , ecco le leggiadre stagioni di
Giulio Aristide Sartorio, il candore malaticcio della
Bianca in abito da sera di
Amedeo Bocchi, la serenità plastica delle donne di
Felice Casorati.
Ma l’emblema è giustamente la Wally Toscanini ritratta da
Alberto Martini: colui che Sciascia definì “
l’artista più misterioso, più decadente e più surreale dell’Italia post-unitaria” dà della secondogenita del direttore d’orchestra, al centro di una scandalosa vicenda di cuore, l’immagine di una seducente odalisca dallo sguardo perverso, pelle di cristallo e labbra rosso fuoco, coperta di perle e d’oro.
Icona della
femme fatale che lascia il focolare per l’alcova, destinata al successo planetario nel cinema. Si veda la conturbante
Signora (1937) di
Marcello Dudovich, fasciata in abito scuro, i grandi occhi blu appena socchiusi. La nuova donna sembra il ritratto di Greta Garbo. Che porta nello sguardo – malinconico, per quanto determinato – tutte le sue contraddizioni.