Il viaggio alla scoperta degli
Antichi tracciati di
Franco Guerzoni (Modena, 1948) inizia davanti alla
Stanza dei Dolmen e dei Menhir. Opere di grandi dimensioni dove domina il nero, che portano lo spettatore a perdersi in un’esplorazione misteriosa attraverso le forme del tempo e della memoria. Unico contatto con la realtà, i barlumi di luce che s’inseriscono, taglienti, nella pittura. E le architetture: soglie, archi, cerchi irregolari che creano nuove profondità. Nel fiume nero, lo spettatore intravede i fossili, i reperti di un mondo che non ha più una corrispondenza con le cose reali. Dall’ombra affiorano gli archetipi, i segni di una memoria evocata. Il paesaggio si apre a infinite ricostruzioni, dentro le quali ci si perde come in un labirinto. Le opere diventano pagine di un diario, sulle quali si annotano le proprie memorie. E come un libro composto di pagine che si dispongono una sull’altra, anche i dipinti dell’artista modenese recano in loro l’idea della stratificazione.
Il viaggio prosegue. Dal nero si passa al bianco biaccoso, latteo dove il colore nelle tonalità pastello del blu, del rosso e del viola fa la sua discreta comparsa, donando a queste opere una bellezza sospesa nel tempo. Come dice Francesco Poli:
“L’aspetto più sorprendente dei quadri di Guerzoni sta nei colori. I colori ma anche soprattutto la qualità singolare dei loro accordi, e le velature finali che unificano in un’unica atmosfera tonale tutto il quadro”.
Ciò che sovviene osservando le opere della serie
Antichi tracciati è che si tratti di pareti sulle quali si deposita una memoria piena di significato, calcificata nelle fenditure e negli interstizi che segnalano l’aver abitato, l’aver contenuto, l’aver ricevuto, l’aver testimoniato come dati di fatto. C’è poi un’altra categoria di memoria che Guerzoni raccoglie nella metafora del muro e anche nella sua fisicità: la memoria della pittura. Il muro è, infatti, il primo luogo sul quale s’incidono storie, dalle caverne del neolitico al medioevo. Poi la pittura si deteriora, scompare, viene strappata, lacerata, coperta.
Ancora nella serie
Iconoclasta la pittura viene graffiata con l’intenzione di cancellare le immagini, come accadeva nei tempi antichi, per distruggerne la memoria. Ciò che queste scalfitture generano non è però un annullamento dell’immagine. Al contrario, la liberazione di un’immagine altra che nasconde e mimetizza il passato nell’immagine presente, conferendo all’intravisto un enorme potere di seduzione.
Nelle opere in mostra si avverte un dialogo continuo con il passato, dal quale scaturisce la convinzione che questo sia irrecuperabile, perché non si può ricostruire ciò che non è più, perché, come lo stesso Guerzoni dice,
“è la parte creativa dell’archeologia che mi riguarda, non quella della ricostruzione storica che risponde a un’esigenza pragmatica dei contemporanei di leggere il passato velocemente, attraverso la ricomposizione dell’oggetto”. Il processo che porta alla realizzazione di queste opere è lento e complesso. L’opera che ne scaturisce è il prodotto di una profonda meditazione sul segno e sul colore. Dopo la quale il dipinto vive e fa sì che chi lo guarda si perda nella sua profondità.