Vocazione
precipua della città di Venezia è ospitare sedi di importanti collezioni
d’arte. Senza citare casi eclatanti anche recenti, si può affermare che nessun
altro luogo attrae così tanto i mecenati in cerca di studiolo e di conseguenza
i loro tesori.
Un
nuovo punto di riferimento nel panorama dell’offerta della città lagunare è la
polacca Signum, fondazione privata attiva dal 2002, concepita e arricchita dai
collezionisti Hanna e Jaroslaw Przyborowski, avente come sede permanente, dal
maggio scorso, Palazzo Donà (Brusa) in Campo San Polo.
La
collezione comprende opere del XX secolo e oltre, consta al momento di un
migliaio di pezzi e va ampliandosi continuamente. Com’è naturale che sia, la
mission di promuovere artisti polacchi all’estero non è in contrasto con la
proposta di un ambito espositivo di respiro internazionale.
Per
l’inaugurazione si è pensato a una mostra in grande stile, con una selezione di
opere datate dal 1910 al 2009, che coprendo un arco temporale lungo un secolo
non poteva che richiedere un progetto frutto di un certo sforzo critico e
curatoriale. La scelta è caduta sulla connotazione tematica, privilegiando
nello specifico la categoria concettuale del desiderio, leitmotiv dell’arte
occidentale novecentesca non così scontato da individuare come tale.
Quanto
al modello di fruizione, proprio la chiara focalizzazione ha consentito di
tracciare un percorso di tipo emozionale, anticronologico e ad alto tasso di
eclettismo, sorta di “museo immaginario” cui è indispensabile lo sguardo intimo
e approfondito dell’amico ospite, chiamato a spingersi fin nelle stanze più
appartate (la cucina, le camere da letto) a osservare foto, quadri,
installazioni, film, in un susseguirsi di variazioni linguistiche e
nell’andirivieni delle datazioni.
La
dichiarazione d’intenti è immediata, a partire dalle due opere presenti
all’ingresso. Non soltanto perché cent’anni di produzione artistica vengono
shakerati già qui, con la proiezione del video
Il castrato (2007) di
Katarzyna Kozyra che fronteggia un
Autoritratto
con la morte (1910)
dipinto esattamente un secolo prima dal simbolista
Jacek Malczewski, ma anche perché una mostra che
offre segreti come questa si sostanzia da subito come indagine sui temi del doppio
e del narcisismo, risultando centrata abbastanza scopertamente sui dispositivi
dell’autorappresentazione.
Spazio
dunque agli autoscatti (da non perdere la stanza dedicata al genio
Stanislaw
Ignacy Witkiewicz),
alla performance di ascendenza body, ai disegni con
cameo appearence (le preziose illustrazioni
del/col grande
Bruno Schulz), alle pratiche incentrate sul mascheramento e
all’happening con artista-direttore, lungo una direttrice “carismatica” che
collega molti nomi storici (
Tadeusz Kantor,
Krzystof Niemczyk) ai protagonisti più giovani.
Il contrappunto rigorista è affidato al post-concettualismo,
tra gli altri, di un ottimo
Robert Kusmirowski, impegnato nel primo di una
prevista serie di interventi
in situ. Ma soprattutto non mancheranno di emozionare i cultori
di una sensualità più sottile i gioielli proto-modernisti della collezione: sei
disegni a firma
Kazimir Malevic e una
Composizione spaziale datata 1927-31 di
Katarzyna
Kobro.