Una fotografia
d’antan, tanto silenziosa da apparire posata e immobile, sfumata tra il bianco e il nero. E simile a immagini calotipiche di epoche passate, dai tempi di posa lunghissimi e dalle lunghe attese, a suggerire -certamente allora fuor di metafora- il lento scorrere della luce e delle ore.
Gli scatti di
In quiete, la personale con la quale
Claudia Pozzoli (Milano, 1981) torna da Jarach dopo la collettiva
Close to Dark, rimandano di primo acchito a certe atmosfere assolute e metafisiche statiche e calme: un
punto zero della fotografia in cui l’immagine gioca a citare se stessa come fissità epica, eterna e incorruttibile. Più attentamente invece i lavori della Pozzoli assumono un andamento dinamico, autonomo. I soggetti degli scatti -terra, roccia, suolo, elementi naturali e quotidiani- dapprima resi granulosi e materici da
close-up che li avvicinano ai nostri sguardi, sono poi lasciati sfumare nell’immateriale degli spazi vuoti aperti (pieni e vuoti compositivi), di oscure nebbie o luci bianche e abbacinanti, in un movimento ascensionale (ancora i pieni e i vuoti) nei quali la materia si libera del proprio peso e inizia adesistere come essenza. Quietamente. Con citazioni lievi dell’equilibrio aristotelico degli elementi o più probabilmente a un garbato sapere orientale.
Viene in mente Pessoa: “
E per assenza esisto, come il vuoto”.
Le opere qui presentate (tutte di grande formato) ricompongono le tappe di un riflessivo percorso, probabilmente non ancora concluso, articolato lungo cinque serie di lavori a cui l’artista si dedica ormai da qualche anno e nei quali è evidente, sempre maggiore, una ricerca sensoriale sinaptica:
Into my arms, cinque scatti del 2002, visione ravvicinata di una limitata porzione di terreno illuminato dalla luce irreale del flash che relega lo spazio circostante in un buio magmatico e ansiogeno;
Mu, tre scatti del 2003, fissa il vuoto (“mu” in giapponese) che si riempie di vuoto, concettualmente evidenziato dalla neve che si scioglie nel bianco di fondo, presenza eterea e gassosa, l’essenza stessa della fotografia, forse;
Still Lives/Nature immobili, otto lavori del 2004, ritratti di oggetti minimi, di un repertorio quotidiano ma sacralizzati dalla luce intensa, bianca e lattiginosa, che ne lambisce i contorni e ne alleggerisce la natura comune e corruttibile, senza tuttavia privarli della loro materialità;
Invito al cielo, cinque lavori del 2005, ci pone di fronte al nero dell’ignoto, soli e spauriti come moderni “viandanti su un mare di nebbia”. Il percorso si conclude con i cinque scatti inediti di
Oros (2007), nei quali oltre i crinali di alte montagne imponenti e minacciose -talmente nere e pesanti da sembrare laviche- si intravede un orizzonte possibile e luminoso.
Dei lavori della Pozzoli colpisce l’eleganza formale, la raffinatezza, il dettaglio nitido dalla stampa lambda. Colpisce però e soprattutto questo continuo fotografare un soggetto che non è presente: quella paura ancestrale che è vuoto, assenza, nulla. Lo stato di quiete, che àncora le nostre evidenze, i confini stabiliti e certi, è mutabile apparenza. L’artista suggerisce allora di inoltrarci infinitamente oltre l’ostacolo, ricercando quell’
infra-sapere che ogni immagine, come sostiene Roland Barthes, reca in sé.