È un’operazione complessa e affascinante tentare di ricostruire il retroterra culturale che ha fatto nascere e ha nutrito gli artisti cinesi che da qualche anno hanno invaso, a più ondate, l’Occidente. In corrispondenza dell’apertura commerciale della Repubblica Popolare, nell’ultimo decennio abbiamo assistito ad una diffusione mondiale dell’arte contemporanea cinese, anche se spesso gli artisti arrivati per primi o i più noti sono stati inevitabilmente quelli con una più produzione più orientata al mercato. Lo sviluppo artistico del paese orientale è andato a pari passo con il lentissimo progresso nel campo delle libertà individuali portato avanti dal presidente Xiaoping dopo la morte di Mao, e gli anni Ottanta si chiudono con la mostra China Avantgarde, ospitata a Pechino del 1989, che celebra le tendenze di un’inedita New Wave dagli occhi a mandorla. Ma saranno i tragici fatti di Tienanmen e la successiva rigida risposta governativa a porre un freno alle nuove avanguardie, che da quel momento attueranno un cambio di poetica e si dedicheranno con più intensità –sia per mancanza di mezzi che per necessità di sfuggire al controllo della polizia– alla performance, come testimoniato dal lavoro di artisti che abbiamo visto più volte nel nostro paese come Cai Guo Quiang o più recentemente Zhang Huan.
Provengono da questo contesto i fratelli Gao Zhen (1956) e Gao Quiang (1962) –meglio noti come Gao Brothers– alla loro prima personale in Italia. I lavori in mostra sono molto differenti tra loro e spaziano dalle foto di performance (scattate tra il ‘99 ed il 2000) alle più recenti composizioni realizzate collocando persone in contesti spiazzanti e inconsueti, dove è evidente il dimensionamento fuori scala degli elementi.
Ecco così un alveare abitato da una folla di piccoli uomini o strutture modulari che ricordano le mensole portaoggetti degli uffici occupate da un popolo vociante di persone. In questi, come in altri, è evidente l’attenzione per la dimensione collettiva del vivere, come già nelle performance in cui i Gao hanno coinvolto degli sconosciuti invitandoli a rimanere abbracciati per venti minuti.
Le azioni sembrano in realtà reazioni al disordine visivo, al caos delle città, alle difficoltà dell’abitare un territorio fortemente antropizzato ma essenzialmente misantropico, che relega uomini e donne ai confini, nel ruolo di semplici spettatori; situazione che inevitabilmente ci riconduce alla crescita vorticosa della metropoli cinesi e allo spiazzamento dell’individuo costretto suo malgrado ad un salto in avanti senza nessun appiglio o possibilità di voltarsi indietro.
E così diventa inevitabile il confronto con il potere e l’autorità. Tanto nel ruolo di regolazione della moralità, cui i Gao Brothers contrappongono una pratica della nudità con una sensibilità concettualmente non distante dalle poetiche della body art degli anni ’60 e ’70, quanto nello sbeffeggiamento vero e proprio dei simboli e delle icone del potere, testimoniato da un busto di Mao che diventa Miss Mao, una scultura di plastica colorata che ricorda inevitabilmente Jeff Koons, cui spuntano, in pieno effetto pop disneyano, un seno da chirurgo estetico e un naso da Pinocchio.
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