“
Ma cosa stavo pensando prima di perdermi a guardare?”. È lo stesso
Mimmo Jodice (Napoli, 1934) a descrivere il proprio lavoro utilizzando le parole di Fernando Pessoa, da cui è stato tratto il titolo della mostra. Impreziosita nella riedizione veronese dalla cornice suggestiva e consonante, la retrospettiva del Centro Forma racconta trent’anni alla ricerca dello spazio perduto nel paesaggio italiano.
L’Italia di Jodice è fatta per lo più di luoghi abbandonati, di detriti e fatiscenze su cui l’occhio del fotografo si posa. L’utilizzo sapiente della luce diventa la lente d’ingrandimento di quest’indagine, enfatizzando le ombre sulle crepe dei muri, le macchie sugli intonaci screpolati o le incrostazioni di ruggine di una ringhiera. E anche incantevoli scenari naturali assumono un fascino spettrale, mediante gli ampi tempi d’esposizione, in grado di creare cieli apocalitticamente bianchi, come i loro riflessi sul mare.
Mettendo in risalto il passaggio del tempo su palazzi in rovina, fabbriche dismesse o resti di antiche opere d’arte, le fotografie di Jodice insistono sul passato, senza differenziare il vecchio dall’antico, soffermandosi sulle tracce della consunzione, del degrado, del decadimento. Come la polvere cantata da Patrick McGuinness, si posano su angoli di mondo che abbiamo scordato e non vediamo mai, per ricordarci “
che tutto è relativo, caduco, e in sospeso”. Noi compresi.
Ma, allo stesso tempo, questi scatti sono animati da una luce che riesce a rendere mitico il paesaggio e a dare vita agli oggetti, come avviene nei dinamici giochi di specchi fra antichi bronzi immobili e le loro ombre. Non si tratta di due direzioni opposte e contraddittorie. Al contrario, mostrano che è proprio la caducità del reale a dar fondamento al nostro fantasticare. Jodice, infatti, soffermandosi su anfratti trascurati, scopre armonie e contrasti inattesi, che trasformano l’indifferenza quotidiana in fervida attenzione.
Le sue immagini sono inviti al racconto, che trovano nel paesaggio urbano e naturale appunti di un viaggio ancora da iniziare. Non “trattengono il respiro” per immortalare l’attimo in cui si compie un’azione, ma anticipano lo scatto all’albore di una storia, ai suoi
incipit, fra porte murate, mucchi di vecchie scarpe spaiate e grovigli di rami dietro una finestra.
Come insegnano narratori e narratologi, ogni storia si origina da uno o più conflitti; allo stesso modo, questi scatti mostrano quelle interferenze tra forme ed elementi dell’immagine che diventano motivi di affabulazione. Ne ritraggono fratture e discontinuità, anche lievi, catturando suggestioni capaci di animare gli oggetti e di dar loro una dimensione emotiva, trasformando, ad esempio, paracarri in sentinelle oppure le sedie di un cortile della Casina Maltese di Salemi in officianti di un rito misterioso.
Trasformano il vedere in immaginare, proiettandoci, per usare le parole di Jodice, a “
inseguire di visioni fuori dalla realtà”. Ma che lasciano in qualche modo impigliati sulla superficie di quel vedere.