Il recente ritorno alla pittura ha un indiscutibile vantaggio. Nel fatto che i più celebrati artisti anglosassoni odierni sono il frutto della drastica selezione indotta negli anni ’80 dalla crisi stessa della pittura, crisi che si sarebbe protratta per quasi due decenni. Insomma i vari Currin, Peyton, Brown, Doig e pochi altri, rappresentano genuinamente il meglio della pittura internazionale a cavallo dei due secoli, una sorta di fronte di resistenza che, per qualità, non ha potuto essere intaccata neppure da devastanti mode avverse.
Per solito il mercato sfrutta la moda, eleva la massa e distingue alla distanza (leggasi la recente crisi della fotografia, che negli anni ’90 era al top). Nel campo della pittura ci troviamo invece di fronte ad un’interessante anomalìa: la pittura della generazione di mezzo giunge a noi già selezionata; doc insomma.
Karen Kilimnik (Philadelphia, 1962) la potremmo definire pittrice sui generis, interessata alla caratterizzazione dello spazio attraverso il proprio immaginario, ad inscenare la pittura usandola come elemento chiave di un’architettura scenografica più complessa, corrispondente ad una visione del mondo decadente e romantica che viene di continuo ricapitolata e ricontestualizzata.
Per questo a Venezia ci sta come il pisello nel baccello. Ampia blusa bianca, fiore giallo incastonato nella criniera corvina e scarpe da jogging: Karen è la fotocopia vivente del suo lavoro. E ha trasformato Palazzetto Tito in un teatrino dell’assurdo: sedie dorate (con la porporina), velluti azzurri (dozzinali), perle (di plastica), conchiglie (dipinte come nei lavoretti per la festa della mamma), nidi (finti) di passerotti (con etichetta made in China).
Uno scenario kitsch nel quale le sue piccole tele sembrano essere insorte più che collocate: ritratti (c’è anche il Di Caprio della Maschera di Ferro), ville aristocratiche, raffinate anticamere e gabinetti di lettura, nature morte e paesaggi agresti, cani e cavalli. Con
Dalla pittura di genere di Gainsborough a quella di Bocklin e Liebermann, dai racconti di Poe e Hoffmann ai romanzi di Mary Shelley, dai film di Corman interpretati da Vincent Price alla musica dark dei Cure, di Nick Cave, al postpunk di Cramps, Misfits e Fuzztones. Si potrebbe tracciare un’ideale identikit della vena gotica che alimenta o trova corrispondenza nell’immaginario dell’artista.
Che nella Venezia d’oggi, più di quella degli splendori della Repubblica, diventa persino, per naturale effetto collaterale, sottile critica nei confronti di una città svilita nella sua originaria bellezza e memoria, deserta eppure traboccante di turisti mordi e fuggi, che mostra il simulacro di se stessa e la sua trasfigurazione in oggetto di consumo globale.
alfredo sigolo
mostra visitata il 10 giugno 2005
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selezione un bel niente!
questa non é capace di dipingere!
Con la Peyton e la Dumas ha sfruttato la scemenza dell'arte al femminile.
Roba come la loro si trova dovunque
e richiama molto i pastrocci degli allievi meno dotati dei corsi di pittura alle accademie.
consiglierei benevolmente a Sigolo
di studiarsi un pò di arte dei secoli passati
per avere dei parametri più vasti.
Si guardi Gainsborough dal vero ad esempio
quanto ai vari Currin , Brown ecc. si tratta di creazioni del mercato: Currin é bravino(nella media dei pittori più pubblicizzati) ma è evidente che non sà perché dipinge un soggetto piuttosto che un altro.