Ciak, ciak, ciak. Il rumore di un gocciolio, lieve. Un rubinetto non chiuso bene probabilmente. O una grondaia del palazzo. O una fioriera innaffiata troppo. Ciak ciak ancora. Liquido che cade. Acqua, forse. Ciak ciak, le gocce che si fanno più fitte ed insistenti, fino a diventare un tessuto leggero e ripetitivo cui non si presta quasi più attenzione. Ciak ciak si sente dagli alto parlanti collocati sul soffitto. E per terra decine e decine di recipienti, quanti la tassonomia dei contenitori per liquidi ne annoveri. Bottiglie di vetro, borracce, vasi, secchi, damigiane, fusti. Sembra che l’acqua di Venezia debba finire da un momento all’altro…
Invece è proprio questo che hanno pensato Lucy e Jorge Orta che realizzano il progetto Drinkwater! alla omonima fondazione (in italiano). Senza acqua (potabile) la città costruita sull’acqua. E che dell’acqua è stata per secoli accorta amministratrice tanto da celebrare annualmente il rito del proprio sposalizio con il mare, come immortalato nelle celeberrime tele di Tiziano e Veronese. Ma non è un semplice paradosso, un ipotesi irreale, fantastica, da film di catastrofi fantascientifiche. Né uno spensierato e giocoso volo dell’immaginazione creativa. Nossignori. Si tratta invece di un progetto engagé che mira con ironia tagliente a raccontare come dovrebbe essere la nostra vita senza l’acqua potabile nelle nostre case e farci rendere conto della nostra occidentale fortuna.
Ecco quindi la necessità di prelevare dalle fonti il prezioso liquido e di trattarlo opportunamente. Gli Orta infatti hanno pensato a tutto: dalla sede della mostra esce un tubo che arriva ad attingere al canale più vicino per terminare alle macchine per la desalinizzazione e la purificazione. E poi uno sciame di contenitori: dalle mille bottigliette di vetro con i tappi alle borracce, a taniche e damigiane di varie forme e dimensioni. Non mancano i veicoli (dalle biciclette all’Ape Piaggio con le parti metalliche pitturate in un professionale grigio antracite, ad una canoa polinesiana appositamente allestita) per la distribuzione ad personam, né le attrezzature per il primo soccorso, come kit di medicinali, barelle, giubbotti di salvataggio e salvagenti in fogge e colori da fare invidia alla Protezione Civile, tutti dotati del marchio “Orta”, scimmiottando le marche di abbigliamento trekking (del mondo ricco).
E i dati della realtà che i due artisti ci invitano a conoscere parlano di enormi sprechi idrici del mondo occidentale, dell’incommensurabile disparità di risorse e degli (in)evitabili disastri che ne conseguono.
Tra i fantasiosi disegni alle pareti che riportano gli schizzi dei quaderni di appunti ci sono infatti le fotografie di soccorso in luoghi di emergenza. Non sapremo mai se siano state realizzate appositamente per la mostra –come i giubbotti e le bottiglie– o scattate in reali situazioni di tragedie. Ma mai come ora non fa alcuna differenza.
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