Se l’arte ha dedicato al paesaggio un genere immortale, o
quasi, un motivo ci sarà. Verona lo ribadisce agli abitanti del pianeta blu,
tifando verde
in sincro con la sfida di Copenhagen.
La Terra Vivente,
infatti, aperta l’11 dicembre –
dunque in pieno vertice – a Palazzo Forti, è un’ode corale alla (fu) salute del
pianeta. Le sezioni del poema visivo sono una più dei libri del
De rerum
natura, cioè
sette, e inseguono gli “ismi” di fin
de siècle sino alla modernità e oltre,
incasellandoli in categorie
storico-cronologiche, da fine Ottocento agli anni ’70 del
Novecento.
Plasmando i compositi caveau pubblici e
privati di Palazzo Forti, delle Fondazioni Domus – emanazione del gruppo
bancario CariVerona – e Pio Semeghini, e della scaligera Galleria dello Scudo, ne
è uscito un riflesso locale e universale, cioè intimo, di Madre Natura.
Il viaggio in Italia lungo cento opere
inizia unendo Verona e Vasto sotto i
Preannunci del naturalismo di
Giuseppe
Cannella e dei
fratelli Palizzi, transitando
dal romantico vedutista
Mosè Bianchi al “maledetto”
Emilio
Praga, dall’
Arturo Tosi “alcolico” al
Giacomo
Balla ancora “paesaggista” nel 1905, fino alle soglie della
Modernità.
In questa sezione brilla
de Pisis, con un cartone
del 1923 che incornicia la solita “modella” (natura morta) in un’insolita
sagoma stondata. E risplendono pure i secessionisti
Guido Trentini e
Felice
Casorati, folgorati da
Klimt – ospite a
Venezia nel ’10 – prima di approdare al Realismo magico.
Graffa centrale è
Giovanni Frangi, in bilico tra
i cieli senza orizzonte alla
Constable e il mare di
oggi in schiuma poliuretanica: l’“arcipelago” Sidi-Kaouki è tra le
migliori prove d’allestimento in mostra. Fra gli altri meriti – oltre al fatto di reagire al
post-cortenovismo assoluto – c’è la riscoperta di obliate glorie scaligere,
inserite in una sezione
ad hoc, la sesta. Un vero riscatto per il cosiddetto Gruppo
veronese, alias
Angelo Zamboni,
Guido Farina,
Orazio Pigato,
Albano Vitturi; per l’ultimo in particolare, nulla sembra esser valso
partecipare a otto Biennali di Venezia.
Mentre
Pio Semeghini affianca a buon titolo de Pisis, conosciuto a
Parigi, il “veronese” più celebre dai tempi di
Paolo Caliari,
Angelo Dall’Oca Bianca, misura il suo valore nella sala
accanto al
macchiaiolo Signorini. Proprio Dall’Oca condivide pacifico la sezione con un Balla ancora
scevro dall’astio futurista, che spinse gli allievi dell’Accademia Cignaroli a
distruggere 52 opere del concittadino “passatista”.
All’unisono con le
impression di
Corot alla Gran Guardia
, la rassegna riporta agli occhi
l’urgenza di difendere ciò che resta del mondo, spesso disarticolato, in ogni
caso custodito dagli artisti sul letto anatomico della tela dipinta
. L’ultima sezione,
1940-1960, la più ricca di maestri, da
Donghi a
Vedova, da
Santomaso a
Schifano, fa affiorare l’unico neo: un
allestimento talvolta un po’ subito per eterogeneità di materiale, come nel
caso della
Scheggia di
Afro del 1956, stretta fra altri grandi,
Tancredi,
Licini e un
Morlotti tardo, datato 1927 anziché ‘72.
“
I refusi nelle didascalie erano 20”, fanno sapere dallo staff, “
ma
sono stati tutti corretti”. Un plauso alle buone intenzioni.