Nei suoi scritti raccolti in
Arte e illusione, Ernst Gombrich rifletteva su quanto il nostro sguardo sia antico, condizionato dalle esperienze, tanto che bastano pochi segni su un foglio a dar l’impressione di un volto o di un paesaggio, riaccostando la loro composizione a immagini che ci sono più familiari.
I disegni di
Maurizio Donzelli (Brescia, 1958) sfidano questa consuetudine, ostinandosi a rimanere in quella terra di nessuno tra segno e rappresentazione. L’artista lombardo cerca di azzerare il disegno, di ridurlo al minimo, fermandosi prima di averne fatto un oggetto di riproduzione del mondo esterno, prima che emerga la realtà tiranna a determinare ogni referenzialità e a limitarne potenzialità e sviluppo.
Ispirandosi ai disegni e alle riflessioni teoriche di
Klee,
Arp e
Matisse, le linee sinuose dei suoi acquerelli propongono forme d’ispirazione naturale e organica. Descrivono silhouette di sconosciuti organismi primordiali, forme embrionali che racchiundono in sé tutta la natura bifronte dell’inizio, che è tutto in potenza e rimane sospeso tra essere e non essere. L
e opere di Donzelli, pertanto, non possono che costituirsi nel continuo confronto con lo spettatore, prendendo la propria realtà dal suo sguardo, instaurandovi un dialogo continuo.
Questa relazione necessaria è ribadita grazie al carattere indecidibile del disegno, che impedisce di dare univoci riferimenti anche solo per il punto di vista da cui l’opera va guardata. Nei suoi
Mirrors, ad esempio. Si tratta di quadri-scatola in legno e vetro, che contengono collage e disegni e alcune lenti prismatiche. Gli effetti di distorsione della luce sulle lenti le rendono specchi fino a 40 gradi, mentre più frontalmente creano immagini che mutano forma in base agli spostamenti dell’osservatore. L’opera si modifica a ogni minimo cambiamento del punto di vista, tanto da suggerire il movimento attorno a essa, per sfruttarne il gioco mutevole delle forme e costruirne un’immagine mentale stratificata.
Lo stesso principio d’indecidibilità si ritrova nella grande installazione da cui la personale prende il titolo,
La natura delle cose. Un pavimento ricoperto da disegni e reso calpestabile grazie a una superficie in policarbonato trasparente. Accostati l’uno all’altro, i disegni perdono l’univocità del verso, anche grazie agli specchi appesi alle pareti e al soffitto, che ne rovesciano l’immagine. Lo spettatore è lasciato libero di muoversi sui disegni e attorno a essi, di rovesciarne e ristabilirne la direzione. E d’interpretarne sovrapposizioni e accostamenti. Ciascun foglio, disposto sul pavimento senza soluzione di continuità, perde i propri confini, facendo interferire i propri segni con quelli che gli stanno accanto, richiamando possibili continuità e sovrapposizioni.
Come se la loro ambiguità strutturale venisse amplificata dal loro accostamento, facendone immagini ancor più fluttuanti, molteplici attributi di un essere privo di determinazioni.