Sono decenni che ormai nessuno crede più all’oggettività della fotografia. Ogni gesto, anche quello d’inquadrare o fare semplicemente click, puntando l’obiettivo su qualsiasi pezzo di mondo, presuppone un minimo gesto di volontà. Il che significa che ogni trasferimento o trasposizione dal reale a un supporto, sia esso fotochimico o elettronico, nasce già come un fatto individuale e d’insubordinazione rispetto al semplice ruolo di osservatore.
Parte da quest’assunto la collettiva veneziana, che mette in mostra – o in scena, se si volesse portare all’estremo il concetto di finzione – nove differenti
punti di vista, contraddicendo apertamente il dogma del
wysisyg (what you see is what you get) che luccica sulle scatole delle fotocamere più sofisticate.
È il caso delle stampe in
hi-key di
Claudia Pozzoli, caratterizzate da un lirismo ermetico, che trova gli esiti più interessanti nella volontà di nascondere i dettagli, sovraesponendo il soggetto. Il suo è un esempio lampante di come la luce possa, con la sua forza, spazzare via tutti quegli elementi che essa stessa rende possibile cogliere in condizioni normali. Nello scatto, l’artista si giova della possibilità di far tabula rasa, di eludere, accennare, mostrare appena. E così il bianco del contesto è di gran lunga più importante del ruolo del soggetto, ridotto a suppellettile.
Segue dinamiche molto diverse il lavoro di
Simone Bergantini, che presenta foto in bianco e nero in cui gli animali presentati – una volpe e una scimmia – sembrano soggetti di vecchie fotografie sporcate dal tempo e dall’incuria, e che per questo veicolano la suggestione della storia.
Alessandro Zuek Simonetti sceglie invece un approccio a cavallo tra foto di strada e inchiesta giornalistica, in cui si colgono chiaramente il ruolo del soggetto e quello dello sfondo (ad esempio, una pistola puntata o una sbrindellata bandiera americana) e la volontà di raccontare senza perdersi in perifrasi.
Il lavandino di
Nicola Vinci, il cui titolo
Ponzio Pilato pare un ironico riferimento a “lavarsi le mani”, ha uno stile asciutto, dall’atmosfera rarefatta, che induce a considerazioni di natura spiccatamente metafisica. Le opere di
Davide Balliano sono costruite sulla sovrapposizione di disegni e reticoli a foto – il Castello di Neuschwaldstein o il ritratto di Napoleone a cavallo – su cui l’autore è intervenuto, disegnando rispettivamente la trama della dama cinese e un solido geometrico.
Notevole il lavoro di
Teodoro Lupo, che espone uno scatto di alberi rinsecchiti e immersi nella nebbia, fotografati non dal vivo ma sul monitor, come si evince dalla presenza delle linee verticali colorate, caratteristiche della costruzione dell’immagine attraverso la metodologia rgb. La sua opera sembra seguire raffinatamente le teorizzazioni di Deleuze esposte in
Immagine-movimento: “
L’occhio è nelle cose, proprio nelle stesse immagini luminose. La fotografia, se fotografia vi è, è già presa, già scattata, all’interno stesso delle cose e per tutti i punti dello spazio”.