Se esporre la propria collezione permanente comportava il rischio di esibire una congerie di opere etrogenee, nella mostra di Palazzo Forti lo si è saputo scampare abilmente grazie a uno studiato percorso espositivo. Orizzonti aperti esordisce come un’incursione in alcune delle tendenze artistiche del recente passato, raggruppate per nuclei tematici in un percorso che si dipana a ritroso dalla videoarte al minimalismo degli anni ’60 e ’70, per poi trasformarsi, nella seconda parte, in una tradizionale mostra pittorica, composta da dipinti datati tra il 1896 e i primi anni ’60, esposti in un ordine approssimativamente cronologico.
Accolto sin dal cortiletto interno da sculture che trovano nello spazio aperto una consona collocazione e accompagnato lungo le scale da video di Debora Hirsch, il visitatore viene immediatamente calato nel vivo delle più recenti ricerche artistiche, valorizzate da un allestimento che gioca con l’interazione tra le opere d’arte e lo spazio di un edificio che le accoglie nelle sue nicchie, che accresce, grazie alle pareti affrescate, la suggestione che da esse promana e che consente di disporre di un’intera sala per un singolo lavoro.
Fa da filo conduttore all’esposizione delle opere più recenti la questione della perdita di un’identità da parte dell’uomo, di cui gli artisti prendono atto impiegando una grande varietà di linguaggi e materiali. In alcuni (Robert Gligorov, Louise Bougeois, Olga Tobreluts, Debora Hirsch), lo smarrimento è simbolizzato attraverso corpi umani sottoposti a improbabili metamorfosi; altri si limitano a registrare il senso di spaesamento provocato dall’incapacità di dare significato alla realtà (evidenziato dai non-luoghi delle immagini di Botto & Bruno, dai volto e corpi inespressivi di Vanessa Beecroft, dell’hi-fi molle e monocromatico di Loris Cecchini); altri ancora si muovono al di là della constatazione e della protesta, avanzando possibili vie d’uscita. Vanno in questa direzione l’ultima opera entrata nella collezione, La dimora del poeta dell’egiziano Medhat Shafik, un suggestivo esempio di ricerca di forme poetiche in arte, e i numerosi lavori che invitano a riflettere sul ruolo della memoria, tra cui sono da segnalare quelli di Claudio Costa, cui è interamente dedicata una sala.
Il percorso prosegue, con un disorientante salto indietro nel tempo, al secondo piano. Qui un numero minore di opere offre un saggio della scena veronese degli anni ’10 e ’20 (Guido Trentini, Pino Casarini, Giuseppe Zancolli) e di alcuni momenti delle ricerche dell’arte italiana nella prima metà del secolo scorso (dal segno sintetico di Filippo De Pisis a quello solido di Mario Sironi; dalle sperimentazioni puntiniste di Angelo Morbelli a quelle della stagione del Fronte Nuovo delle Arti di Emilio Vedova e Renato Birolli). Particolare attenzione meritano le tele di Felice Casorati, rappresentato, oltre che da alcune tele della maturità, da un’interessante opera del 1914 (La preghiera), testimonianza degli iniziali legami del pittore piemontese con la secessione viennese.
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forse la mostra più terribile e triste e disarmante vista quest'anno. evviva che un museo faccia nuove acquisizioni, ma le opere in quelle sale proprio soffrono e poi se occorre chissà perchè acquisire artisti come i Dormice o amichetti veronesi..perchè di Basilè o della Sherman delle opere così 'brutte'? tanto 'per campione'? evviva Casorati e i Naturalisti Padani del piano di sopra. Scarso pure il buffet e disorganizzato l'ufficio stampa che nemmeno aveva preparato un Cd con le foto ma le distribuiva a mano o via mail il giorno, dopo intasando le mail con kilobyte di Beecroft...