Atmosfere da romanzo giallo aleggiano nelle stanze della
Fondazione March per questo terzo capitolo di
Furniture Music, progetto del collettivo
veneziano
Blauer Hase (Mario Ciaramitaro, Riccardo Giacconi, Giulia Marzin e Daniele
Zoico).
La suggestione per questa mostra viene dal Museo di
Sherlock Holmes a Londra, dove sono ricostruite alle pareti scene tratte da
alcuni romanzi con protagonista l’investigatore inglese. Il collettivo ha
scelto così di riflettere sul rapporto fra cultura e spazi domestici,
accentuando la dose d’atmosfera che di consueto si vive all’interno dei loro
lavori.
Nel 1914 il compositore Erik Satie teorizza e compone la
cosiddetta “musica d’arredamento” o
musak, una serie di suoni discreti ipotizzati per esser
diffusi nei luoghi dell’attesa, come sale d’aspetto e ascensori. Con la sua
invenzione, Satie puntava a eliminare il silenzio e a entrare
impercettibilmente nell’inconscio dell’ascoltatore involontario.
Questa mostra si snoda in un’ex sala riunioni, reinterpretata
come il luogo principe del mistero. Anche in questo caso, come nei precedenti
veneziani, l’arredamento lasciato dai precedenti occupanti viene riutilizzato
nell’allestimento.
Una porta socchiusa nella semioscurità rilascia una fonte
di luce e calore, una stufa posizionata a beneficio di nessuno in un luogo
interdetto alla visita. A ben ascoltare, da quello che secondo gli artisti è un
“
focolare negato”,
proviene una citazione di alcuni brani di
musak a velocità diminuita.
In un’altra sala, su un vecchio televisore scorrono
immagini di film gialli che hanno ispirato la mostra e che sono stati
consigliati a Blauer Hase nel corso delle interviste per la redazione del libro
Furniture Music,
presentato al pubblico in occasione della mostra. Alcune citazioni di testi e
dialoghi, raccolti per la composizione del volume, sono state riportate su
manifesti e fogli sparsi nelle varie sale, didascalici interventi sulla
relazione uomo-spazio abitato.
L’angolo è protagonista dell’allestimento. La stanza
definita “
delle divinità della casa” espone nella sua semi-oscurità una sorta di oggetto
angolare in vetro, privo d’ogni utilità materiale. La suggestione dell’angolo si
ripropone nel posizionamento di alcuni disegni didascalici che aderiscono
perfettamente alle pareti, come se fossero i pilastri stessi sui quali la
mostra è fondata.
All’uscita da queste stanze avvolte dal mistero si ha la
sensazione di un’arte invisibile, che penetra l’inconscio dello spettatore e lo
lascia sulla soglia della comprensione.