Sembrano opera di due differenti artisti i lavori di
León Ferrari (Buenos Aires, 1920) presentati in galleria, e non mancano le sorprese per chi conosce solo il lato più politico, antireligioso e iconoclasta dell’autore argentino. Ad accogliere il visitatore sono infatti le tele realizzate
scrivendo direttamente sulla superficie con pigmenti appositi, talvolta scuri e densi, in altri casi colorati, metallici e brillanti. E naturalmente questo filone non
engagé bilancia la gravità di quello polemico, che talvolta può sembrare eccessivamente ideologizzato e per certi aspetti prevedibile.
La chiave di lettura la fornisce lo stesso Ferrari, in uno scampolo d’intervista affisso alle pareti a mo’ di citazione: “
Ho due linee di lavoro che per me sono molto diverse. Quando realizzo disegni e acquerelli non cerco e pretendo significati. Li faccio perché mi piacciono e lascio a chi li guarda la libertà di interpretarli o meno”. Hanno quindi la funzione di
divertissement, di passatempo; una sorta di autoconcessione, per liberare la mano dal peso delle idee che talvolta insistono con troppa zavorra sulla creatività dell’artista (talvolta forse condizionandone la freschezza).
Di altra natura le
eliografie – realizzate tutte nel 2008 – che sono probabilmente la sezione più interessante della mostra, parte delle quali sono allestite intelligentemente in mezzo alla stanza con un filo di nylon, come panni stesi ad asciugare. Il lavoro ha ovviamente forti richiami all’architettura, a partire dal tipo di supporto, ma si rivela inevitabilmente critico rispetto all’ipertecnologizzazione attuale.
Da un lato, infatti, permane uno spiccato utilizzo dei
topoi grafici del disegno architettonico (i simboli di scale, porte o mobili), che sono però utilizzati come elementi astratti e non rappresentativi; dall’altro le affollate disposizioni caotiche paiono una critica alla società contemporanea, incapace di scegliere una forma sostenibile di sviluppo, ed “
esprimono l’assurdità della società attuale, un tipo di pazzia quotidiana necessaria perché tutto sembri normale”.
Dal soffitto di un’altra saletta pende una scultura realizzata assemblando con poliuretano marrone (la cui consistenza ricorda gli escrementi), fiori di plastica e finti topolini, un
frottage inquietante che suona come un
memento mori, mentre la stanza più intima della galleria accoglie i lavori più noti, realizzati ricorrendo al collage. Ecco così Papa Wojtyla tagliuzzato e ricomposto all’interno di un’infernale tela di
Bosch, o San Pietro fare il guardone in una xilografia di
Utamaro, accanto a un samurai con tanto di fallo turgido mentre si accoppia con una geisha.
Non manca il tema politico, come testimoniato da
Nunca Mas, in cui Ferrari critica con
vis polemica la dittatura argentina, colpevole di aver occultato e ucciso migliaia di persone, tra cui uno dei figli dell’artista. Ed è difficile non stare dalla sua parte.