Per la prima volta in mostra in Italia,
Shinko Okuhara (Tokyo, 1973) esordisce presentando un breve excursus sullo sviluppo della propria pittura, che culmina con la sua ultima serie:
Sleeping Figure, in cui figure di donne, ricreate tramite l’utilizzo del collage, cadono addormentate o si permettono un lungo momento di abbandono in luoghi aperti, urbani o naturali.
In realtà, più che figure “sleeping”, le sue sono figure “laying down”, ed è a questa posizione – lo stare sdraiati – che in effetti l’artista stessa affida i propri momenti di confusione per chiarirsi, sbloccarsi, raggiungere un punto di vista nuovo e più ampio sulle situazioni. Non solo: sdraiarsi vuol dire in un certo senso disarmarsi, e farlo in un luogo pubblico rappresenta anche una perdita del senso del pericolo, una conquista di temerarietà, sfacciataggine, fiducia.
Tutte conquiste che risultano fiabesche, fondamentalmente irreali: l’essere umano è costituito come un puzzle dall’incastro di pezzi di giornale o di foto scattate dalla stessa artista – pezzi di mondo reale e tangibile – ma cade in una situazione di transfert in cui tutto il resto diventa colore pastello, gli spazi si allargano e la pittura volutamente imprecisa, le colature, le tonalità pressapochiste, la mancanza di ombre, il minimalismo veloce danno l’effetto di un sogno effimero, un’illusione a cui però ci si affida in modo innocente.
Un’innocenza che la giapponese non nasconde essere del tutto sua, mentre parla con naturalezza disarmante del suo modo di intendere la pittura e la vita come insieme di elementi semplici: svegliarsi presto al mattino, camminare nel parco, mangiare spiedini di pollo, rilassarsi sul balcone di casa e pochissima vita notturna. In conpenso, ama lo shopping. Non a caso lavora moltissimo nel campo della moda e della pubblicità come illustratrice, grafica e fashion designer insieme allo stilista
Kumiko Iijima.
Questo contrastro tra una vita tutto sommato isolata e un lavoro e un ambiente professionale aggressivo non fa del resto che richiamare il contrasto tra l’atto intimo dell’abbandono che troviamo nei suoi quadri e gli ambienti esterni, urbani, veloci e caotici, rumoreggianti e inquieti.
Dando in questo modo un insegnamento da vera perla orientale di filosofia quotidiana: il bisogno di costruirsi uno scudo di propri ritmi e propri gusti che permetta di rilassarsi e di immunizzarsi dalle invadenze esterne.