Se davanti ai nostri occhi vi fosse costantemente una luce abbagliante e indistinta, uniforme e avvolgente, capace di cambiare ogni volta di colore, vedremmo il mondo così come ce lo restituiscono gli oli e i pastelli di
Francesco Stefanini (Pietrasanta, Lucca, 1948; vive a Volpago del Montello, Treviso). L’artista ha già abituato la città di Treviso a questa nuova e particolare situazione ottica nel 2002, anno di un’altra importante personale nella sede di Ca’ dei Carraresi, e ora ritorna con una selezione di una quarantina di opere realizzate negli ultimi otto anni.
In questo periodo ha continuato la sua costante ricerca stilistica sul conflitto e sulla complicità tra luce e ombra in una relazione d’amore/odio totale e viscerale. Questo rapporto dualistico è talmente protagonista che arriva a coprire tutti quegli elementi che invece sono classicamente e canonicamente delineati e definiti proprio dai contrasti di luminosità, realizzando una pittura che, se non fosse per i colori più che accesi, sembrerebbe il negativo di un dipinto, più del dipinto stesso. In questa sperimentazione costante nella sua intera carriera artistica, i paesaggi, che di fatto sono i soggetti delle opere, vengono così appena intravisti e intuiti, accennati e lasciati immaginare. E la mostra si presenta proprio come una celebrazione di luci che, giustamente, Dino Marangon definisce nel testo in catalogo “
intensissime, diffuse, scintillanti e incandescenti”.
La sensazione offerta ai visitatori è, quindi, quella di trovarsi all’interno di una dimensione governata da una fonte luminosa spettacolare, eccessiva e accecante, ma che non crea fastidi percettivi. È, insomma, come se ci si trovasse di fronte a una luce fredda, a una sorta di energia visibile e fitta al punto di divenire palpabile e coprente, visto che scherma gli elementi naturali e spesso e volentieri li nasconde del tutto. Questo tipo di esperienza visiva dà la percezione di una forza tangibile che, velando il mondo di un unico colore, come se lo avviluppasse dentro di sé, crea la sensazione di una comunione tra i vari soggetti, stabilendo una sorta di regola universale, finalmente resa avvertibile anche ai sensi umani.
In quest’accezione, le sue opere o, meglio, la visione collettiva delle sue opere, guadagna un significato mistificatore, una specie di presa di coscienza collettiva di una legge unica e divina preesistente sulle cose. Che diventa manifesta colorandosi con le tonalità accese e predominanti che trasformano le visioni naturalistiche in quasi monocromi accecati da una luminosità che ricorda e richiama quella dantesca del Paradiso.