E’ possibile oggi individuare e comprendere, nel suo implicito valore di ambigua relatività, il motivo figurale con cui spesso viene celata la propria, profonda identità?
“Molti uomini dormono in me, ma tutti quanti devono diventare uno solo. Così sono andato alla ricerca dei miei confini, dei miei contorni, di un punto di riferimento. Ma ho trovato soltanto che mi potevo espandere per ogni verso indefinitivamente. […] Da allora il mio desiderio è stato di aprirmi permanentemente, ma contemporaneamente di conquistare un punto di appoggio fermo come il granito”.
Da queste parole di Arnulf Rainer si può intuire il complesso valore che The Mask viene ad assumere nel gioco contaminatorio di un Io che trova nel molteplice e nel
Un’artificialità che si avvale d’impeccabili innesti chirurgici per creare protesi virtuali dell’eccesso, dell’inedito, di una dismisura pronta a sfidare le canoniche delimitazioni spazio-temporali, obbediente alle imprevedibili inquietudini di un volto che non riesce più a difendersi dalla soffocante molteplicità virtuale.
Al di là di qualsiasi delimitante tabù atavico, ora sono la classiche “statuine” di Luigi Ontani, statiche incarnazioni della volontà di fendere in modo disinvolto “epoche, età, corpi, identità”, gli inafferrabili miti androgini di Urs Luthi, o i diabolici clown di Erwin Olaf a recitare la quotidiana commedia pirandelliana di un’alterità a cui è permesso dialogare con sé solamente attraverso la propria copia o la propria deformazione.
Ossessivamente plasmati da una sorta di “cannibalismo iconico”, gli imprevedibili feticci di Yasumasa Morimura, provocatorie contaminazioni tra una destabilizzata identità soggettiva ed il “divismo” dei moderni eroi massmediatici, o il cast teatrale di Cindy Sherman, affollato scenario di memorabili riferimenti di quotidiana cronaca, divengono pedine mobili di un gioco che moltiplica ed amplifica lo spaesante attraversamento storico-cronologico.
Un gioco incontrollabile tra reale, possibile ed immaginato, che nelle immagini di Janieta Eyre attesta la deliberata finzione di una memoria insondabile, nelle maschere di Man Ray diviene pluralità semantica di un materico linguaggio performativo, nelle finzioni tribali di Luisa Raffaelli dimostra
Senza dimenticare le ricostruzioni sintetiche di Barbara La Ragione, inquietanti simulacri in grado di svelare le proprie ansie, le proprie rassicuranti illusioni, il proprio Altro da sé; la ieraticità statuaria dei corpi di Antonio Girbes, che nella loro rigidità atemporale non sfuggono ad una certa gentilezza figurativa; gli sfocati dittici di Francesco Totaro, supporto trasfigurato di un linguaggio che con la sua smarrita fluidità diviene impalpabile pretesto per il definitivo superamento del confine tra sogno e realtà.
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