Sarà per smaltire la sbornia di anni di provocazione che ormai non fa più male a nessuno, sarà per le preoccupazioni che attanagliano il nostro tempo, a tutti i livelli, c’è in giro voglia di ritrovare un po’ di serenità. Così capita che nell’arte facciano capolino concetti che si credevano desueti, come la memoria, la bellezza, il lirismo e il sogno. La retorica non fa più spavento, anche perché l’arte sa come prendersene gioco e contestualizzarla in un immaginario collettivo borderline. Gli esempi potrebbero essere molti e diversi tra loro: Karen Kilimnik, Elizabeth Peyton, Ann Craven, Tim Gardner, Christian Ward, Suling Wang .
Ecco allora spuntare Charlene Liu, 29enne taiwanese di nascita, t rasferitasi nella Grande Mela dove si è laureata alla Columbia.
E’ lei stessa a descrivere gli ingredienti delle sue opere, con un pragmatismo disarmante che fa persino sorridere: la nostalgia per la cultura e il paese di origine e un episodio familiare, cioè la scoperta, durante una recente rimpatriata, che sua sorella aveva piantato il chiodo delle motociclette, facendone una manìa.
Alla luce di questo si chiarisce quanto di autobiografico e di narrativo sia contenuto in quelle carte della Liu, impalpabili, traboccanti di fiori e racemi vegetali dalle tonalità delicate e seducenti.
Eppure, più di questo, è il mirabolante e fantastico conflitto che queste opere innescano ad affascinare l’osservatore: paesaggi favolosi e antichi, sospesi nel tempo e nello spazio, scompigliati dalle pericolose evoluzioni di piloti di motocross. Bande che solo in apparenza minano la perfezione classica, cromatica e formale, di questi visioni di genere e che invece finiscono per pacificarsi in
Una pittura fresca e mai ridondante, che si fa piacere facilmente.
Annotazione a margine: sempre più spesso i nuovi artisti della scena anglosassone sembrano emergere già maturi, sulla soglia o ben oltre la trentina. Che l’assurda moda dell’artista in fasce ad ogni costo sia in declino?
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