Sembra andare contro una pittura mainstream spettacolare e di grandi dimensioni che va di moda -ma anche una tendenza al gigantismo che si riscontra nella fotografia e nell’installazione- il lavoro che conduce con misurata raffinatezza
Daniel Sinsel (Monaco di Baviera, 1976; vive a Londra), le cui ultime fatiche sono esposte nella galleria veneziana. Opere caratterizzate da una particolare concentrazione intellettuale, grazie a cui è possibile coniugare istanze e suggestioni eterogenee, talvolta in contrasto e volutamente spiazzanti.
Le matrici che danno origine a questa pittura sono molteplici e vanno a perdersi nella storia stessa dell’arte e, in particolare, proprio della pittura (che l’artista sembra aver perfettamente metabolizzato), al punto che le sue tele danno l’impressione di essere sopra ogni cosa una
riflessione sul dipingere anziché l’
effetto del dipingere.
Sono in questo modo visibili riferimenti alla scuola italiana del Quattrocento, dall’asciutta ieraticità di
Piero della Francesca alla morbida consistenza degli azzurri delle
Madonne belliniane, ma anche rimandi a una pittura che ama parlare e mostrarsi ricorrendo alla possibilità, propria dei simboli, di veicolare significato nascostamente. È il caso della tela che rappresenta un ramo tagliato e coperto di spine, grazie al quale l’artista (ri)evoca la lacerazione della carne comune a tanti martiri cristiani, nonché una possibile rappresentazione del fallo e della potenza virile e
offensiva dell’organo, mutuata dall’immaginario omosessuale.
In altri lavori il simbolismo è meno sussurrato, come nell’olio in cui tre dorsi con natiche maschili ben in vista sono messi in contrapposizione con un flauto a becco posto trasversalmente; o nell’opera a tecnica mista realizzata a partire da una foto di
Von Gloeden di tre ragazzi nudi ed efebici visti di spalle, sulla cui superficie Sinsel colloca della stoffa piegata a raviolo e tortellino, quasi a dire, con ironia, che entrambi i soggetti possono stimolare il nostro appetito (con esiti visivi che talvolta potrebbero ricordare la produzione di
Richard Hamilton).
L’abile trama che l’artista sa ordire è così quella di un consapevole rimando alla storia della pittura, su cui gli è consentito ricamare dense miniature con un
fil rouge di volta in volta erotico, malinconico, surreale, simbolista o, in ultima analisi, concettuale. Ecco così spingere una scultura di stoffa oltre la superficie (agendo additivamente dove
Fontana voleva mostrare lo spazio
absconditus) oppure disegnare un nastro le cui spire toccano la cornice della tela, memore delle prassi rinascimentale di cartigli et similia.
Solo che però sono, cornice e nastro, entrambi dipinti,
finti, cioè oggetto di mimesi pittorica. E in un attimo si capisce che a essere rappresentata è la stessa rappresentazione.
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un artista estremamente raffinato dalla grande sensibilità
Caro Capra, secondo me tortellini e ravioli di stoffa hanno una valenza più anatomica e lagati alla sessualità maschile.
In quanto, il tortellino rappresenta l'anello anale e il raviolo la prostata, che hanno solo i maschi, entrambi sono legati all'argasmo che si ha stimolando la prostata dall'ano...caratteristico nei rapporti omosessuali ma anche etero ormai!!!
Caro Aldo, alla fine siamo un popolo che predilige il cibo su tutto!
raffinatissima e acuta esegesi, aldo. certo, ora bisogna vedere cosa ne pensa giovanni rana...