Pareva inimmaginabile il meraviglioso restauro della Punta della Dogana con le tempistiche da Belpaese, ed è inutile nascondere che, quand’era stata comunicata l’assegnazione del luogo a Pinault, qualcuno sorridesse vedendo il piano di lavori e i pochi mesi per realizzarlo. D’altronde, il nostro è il Paese delle soprintendenze, e basterebbe un qualsivoglia burocrate per rendere impossibile ciò che altrove è norma. Qui non è capitato, per tanti motivi, tra cui il fatto che sia il magnate francese che il sindaco di Venezia ci avevano messo la faccia.
C’è una tenda di perline rosse di
Felix Gonzale-Torres ad annunciare
Mapping the Studio, la mostra inaugurale costruita attorno all’idea di mostrare non tanto le
opere, bensì gli
studi degli artisti. L’idea è sostanzialmente un pretesto per la collocazione delle opere stesse e funziona tutte le volte in cui in uno spazio c’è un unico autore, mentre l’idea di realizzare il catalogo con la documentazione fotografica degli studi è appropriata e stimolante.
Varcate le perline, nella prima sala sono allestiti un centinaio di parallelepipedi di resina trasparente di
Rachel Whiteread e una delle classiche tele scritte di
Richard Prince; su tutto, non solo topograficamente, il cavallo impagliato di
Maurizio Cattelan, con la testa conficcata nel muro di pietra secolare, tra ironia e riflessione sul senso del mondo.
La scala in cemento armato porta ai terribili
Jake & Dinos Chapman, il cui fantasmagorico
Fucking Hell brulica di una marea di omini nell’abisso infinito ricostruito in scala. C’è invece l’ultima coloratissima
Cindy Sherman a guardare
Koons amoreggiare con Cicciolina sul busto di pietra, mentre le ultime sale del piano rialzato sono uno scoppio di fuochi d’artificio, con
Fischli & Weiss e
Paul McCarthy che fanno il botto, in due installazioni in cui – con modalità assolutamente eterogenee – il mondo dell’informazione e quello politico vengono esaminati e smascherati, nelle loro dinamiche e nelle insensate bugie.
Silenziosi e raffinatissimi i lavori di grandi dimensioni di
Sigmar Polke, che sembrano in qualche modo una riflessione sulla pittura, come quelli di
Rudolf Stingel, collocati tra le pareti di cemento di
Tadao Ando, che svelano inoltre un inedito aspetto della storia personale dell’autore.
Lacerante la riflessione sulla morte nelle opere di
Marlene Dumas, ma quasi non si fa tempo a rendersene conto dopo la sala di
Takashi Murakami, come sempre chiassosissimo, con eiaculazioni e seni dalle lattiginose emanazioni.
L’ultima sala è dedicata a
Mike Kelley: un invito a muoversi nel buio, fra i prototipi di città e nuovi mondi. Una sorpresa la via dell’uscita: un canestro con gocce di cristallo di
David Hammons, peccato quasi non accorgersene.
Per i più instancabili, una propaggine della mostra è a Palazzo Grassi. Ma francamente, dopo tutto il ben di Dio che s’è visto e valutando anche il costo non proprio popolare del biglietto, non se ne sente l’esigenza.
Visualizza commenti
Credo che sia vero il contrario e cioè forse quella a punta della dogana e la propaggine della mostra a palazzo grassi. Quest'ultima assai più intensa.
ma rimane vero che il costo del biglietto non è certo popolare.
l'intervento di Ando è a dir poco magnifico: stupendo nella sua semplicità.
le opere esposte al suo interno non hanno neanche bisogno di commenti. e la cosa che fa stare bene è che raramente si esce da una mostra così appagati di aver visto lavori che si possono chiamare opere d'arte e rincuorarsi che l'arte contemporanea ha ancora molto da dire
Punta della Dogana non rappresenta solamente la collezione di Francois Pinault: è un luogo emozionante in cui lo spettatore fonde in un'unica esperienza tre incontri.
L'incontro con l'opera, l'incontro con il restauro di Tadao Ando e l'incontro con la città di Venezia che appare e scompare lungo le sale. Un connubio che risulta a dir poco perfetto.