Il primo dei Billboard di Patrick Mimran è comparso nel 2001 nella newyorkese Chelsea dove prosperano i templi dell’arte. Fuori dai circuiti per iniziati delle gallerie, l’artista ha piazzato una sentenza lapidaria offerta alla considerazione dei passanti. In questi giorni chi transita in vaporetto sotto il ponte dell’Accademia è investito dalla frase:Art is still not where you think you’re going to find it.
Come un vento inatteso perturba e stimola il quotidiano e chiama ad una riflessione. La mostra di colui che provoca in tal modo i passanti è allestita alla Fondazione Querini Stampalia a cura di Alessandra De Bigontina e presenta la fucina di un demiurgo contemporaneo che utilizza media differenti per esprimere il suo mondo interiore. Si parte da una tecnica antica e suggestiva, l’encausto, utilizzato già nell’Antico Egitto: attraverso la cera calda che si unisce ai pigmenti, il segno appare inciso e la materia pittorica, brulicante di simboli ancestrali, totem e metafore personali, palpitante e tattile. “Non è sufficiente far vedere quello che si è dipinto, bisogna anche farlo toccare” diceva Braque e la frase calza a pennello per questi dipinti che invitano al contatto epidermico.
L’odore della cera e l’impatto dei colori terrosi coinvolgono gli altri sensi. Si è pronti per il secondo stadio della mostra e del cammino, dalla consistenza materica alla realtà virtuale. Quattro video in cui le immagini, forti di energia cromatica brillante di rossi, blu, gialli, verdi e viola, ciascuna costruita appositamente al computer, scorrono con ritmo continuo e incalzante. Si riconoscono figure mediate dal viaggio dell’artista in India e dal suo incontro con la spiritualità indù: scimmie, serpenti, pavoni, Ganesh l’elefante, Brâhma pricipio creativo dell’universo e equilibrio degli opposti, di materia e spirito. La musica che, parallelamente alle immagini, costituisce la videoproiezione, è opera dello stesso Mimran che ha sondato i territori della composizione musicale anche lavorando al sonoro di alcuni progetti di Peter Greenaway, e, affascinato dalla musica tradizionale indiana, la elabora con i sintetizzatori.
“Le tecnologie costituiscono uno strumento di creazione straordinario. Si potrebbe comparare la nostra epoca con il Rinascimento quando gli artisti utilizzavano le nuove tecnologie…” Il dinamismo delle origini, la deflagrante vitalità di una nascita, di un innamoramento, di un’illuminazione, si placa e stabilizza in una serie di fotografie, tutte intitolate “Stati alterati” che fermano la mutazione, fissano l’immagine, ciascuna elaborata singolarmente. Sembra di percorrere, passo dopo passo, un percorso iniziatico verso una spiritualità “astratta”, fuori di qualsiasi costrizione dottrinaria. Affiorano misteri che non si svelano, ma vengono percepiti in modi diversi a seconda dello spettatore. L’incanto è potente. E creativo diventa anche lo sguardo di chi guarda e il contatto con l’arte instaura un dialogo in progress tra autore, spettatore e opera.
myriam zerbi
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