“Ciò che mi interessa creare nelle mie sculture è allo stesso tempo immobilità e movimento”. Così Germaine Richier (Grans 1902- Montpellier 1959) cercava di spiegare la propria poetica. E così la mostra dedicata alla scultrice francese ha cercato di riproporne il lavoro, in un percorso che comprende ben settantadue opere.
Un allestimento “intimo”, in occasione della prima retrospettiva italiana, che rievoca l’atmosfera dell’atelier dell’artista. Secondo il curatore Luca Massimo Barbero, infatti “c’è tutta una parte dell’arte del Novecento che fa dell’intimità un segno distintivo”.
La Richier rappresenta in Francia, da un punto di vista storico, ciò che Henry Moore è stato in Inghilterra: pura innovazione nella creazione di forme e soggetti. In Moore con accenti più biomorfici, nella Richier la rivoluzione formale si costruisce invece nella narrazione di un antropo-zoomorfismo di carattere mitologico e mostruoso. Come nella famosa Tauromachia (1953), la prima opera che la lungimirante Peggy Guggenheim acquisì per la propria collezione.
Formatasi a Parigi nell’atelier di Emile-Antoine Bourdelle, per alcuni appare come una discendenza della scultura figurativa di Rodin, Claudel e Maillol, ma come sostiene Philip Rylands nell’introduzione del catalogo, la Richier occupa “un’area intermedia con Marini, Giacometti e Moore del periodo bellico e post-bellico di sospensione tra la figurazione e la tensione verso l’astratto”. Una ricerca difficile, che traspare soprattutto nelle sculture a metà tra il mondo umano e quello animale, che spesso l’artista rappresenta tramite diagonali, funzione di una trama geometrica che sembra quasi contenere la deformazione materica. Sono in genere creature dai tratti mostruosi, come Il Diavolo (1950) e L’Artigliato.
Scultrice coraggiosa e controcorrente, fece scalpore con il suo Busto di Cristo (1931), raffigurato al di fuori dei canoni rappresentativi dell’iconografia tradizionale. Altre opere mettono in evidenza la commistione tra l’uomo e la natura, che sfocia in un sentimento panico. Come ne L’Uragano (1948-49), dove il fenomeno atmosferico è rappresentato da un uomo-pioggia, o ne L’Acqua (1953), dove l’elemento naturale è simboleggiato da una donna seduta con un’anfora al posto della testa, immagine a metà tra il mito e una rappresentazione grottesca della condizione femminile.
Una scultura dai toni fortemente arcaici di origine mediterranea, quella della Richier, accentuati dal viaggio a Pompei, la città cancellata dalla lava. Quel viaggio, attraverso i luoghi testimoni della furia della natura durante l’antichità, fu il punto di partenza concettuale di un’artista che, insieme a Camille Claudel per l’arte moderna e a Louise Bourgeois per quella contemporanea, tengono alto il livello della scultura al femminile.
mariapaola spinelli
mostra visitata il 28 ottobre 2006
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Colpi, battiti, strani rumori: Peggy, stanca di rivoltarsi nella tomba, da un po’ ci balla dentro il tip-tap. Sono stati questi suoi segnali di insoddisfazione ad ispirare alla Guggenheim Collection l’apertura del C4 a Caldogno? Non sappiamo.
Alla Galleria Contemporaneo di Mestre, invece, terza puntata della miniserie di mostre (con contorno di public art) della nuova gestione.
La rinuncia del critico curatore di raccontare in modo anche parziale le molte tendenze in atto nelle arti visive contemporanee appare il vero indirizzo programmatico dello spazio mestrino: ripetitività delle opere scelte (astrazione geometrica ecc…), mostre nome-cognome.
Da segnalare a Oliver Sachs come “La galleria che ha scambiato l’arte per un goniometro”.
E’ interessante notare come tutta la visionarietà e la complessità negata all’arte da taluni critici reduci degli anni ’90, viene da essi trasferita, con fantasia a briglie sciolte, nei loro testi critici. Il curatore della galleria Contemporaneo di Mestre definisce romanticamente “centro di ricerca” uno spazio espositivo per artisti mid–career; alla Bevilacqua La Masa qualcuno vede come “commovente lavoro” le volutamente inespressive fotografie di macchine tipografiche di Thomas Ruff.