“Sono trascinato ad avvicinarmi all’opera dell’illustre Munch. Scusate se tento questo parallelo, dicendo che in fondo anche se non ci sono affinità formali, ma abissali distanze di temperamento e di epoche, però si arriva ad una coincidenza: entrambi siamo coinvolti dal tema dell’identità. Identità degli individui per Munch, mentre per me l’identità non è quella dell’individuo ma quella dell’opera stessa. Io sottraggo la mia presenza individuale per dare all’opera la facoltà di esistere in quanto tale”.
Questo distacco Paolini lo riversa anche nelle opere: in lui emerge sempre una perenne questione dell’identità. Ma l’identità, il riconoscimento, sono sempre quelli dell’opera con la sua autonomia di linguaggio rispetto al contesto e all’interpretazione.
Lo spazio espositivo delle sale veronesi è perfetto: deambulando tra le opere si riconosce l’autore e il suo mondo di citazioni. Il tradizionale cavalletto da pittore diventa sostegno per quattro tele virtuali nell’opera Quattro Tele: in teche di plexiglas vi sono riproduzioni fotografiche fronte/retro ma si riesce allo stesso modo a vivere l’esperienza prospettica di opere autentiche. La drammaticità dell’opera d’arte si approfondisce quando il percorso arriva a Eclat, l’opera e il gioco proibito della sua visione, pensata tra il 1987 e il 2001. I frammenti della copia di una testa d’angelo cinquecentesco di Algardi sono poggiati su 8 basi, creando una visione dell’opera in sé compiuta; lo spazio centrale a questi piedistalli è vuoto ma spazialmente riempito della tensione che i frammenti instaurano. Ogni elemento è assoluto, ma un collage analogico dello spettatore riporta i frammenti ad un apparato unitario. La procedura allegorica di L’opera in scena. Teatro dell’opera 1992-1993, è prevalentemente linguistica. L’opera si compie nel momento in cui la matita posta nell’esatto punto di intersezione di due cavi d’acciaio, si trasforma nella bacchetta di un maestro d’orchestra immaginaria che, attraverso una manipolazione del linguaggio dei simboli, inizia l’ouverture per riportare l’ordine nel caos. L’inizio, il compimento dell’azione e la fine sono fissati in un magico istante. Il motivo della scacchiera viene riproposto in L’opera all’opera, essere o non essere, del 1994-1995: l’illimitata possibilità data dalle combinazioni di unità modulari porta ad una riproducibilità all’infinito: la dialettica e l’arte fissano l’inizio.
Le citazioni ritornano nell’allestimento più spettacolare e nello stesso tempo più intimistico della mostra: l’opera delle opere: l’Île Enchantée del 1995-1998. Ricca di metafore, di momenti personalissimi, inventario dell’autore, Wunderkammer, alter ego privata. Sull’immagine di un giovinetto riprodotto da un dipinto di Reynolds è proiettata un’immaginaria e manipolata veduta di Watteau. L’opera stessa e ogni opera citata in questa colta pastiche vivono sulle tracce delle opere passate e future, di immagini già viste.
È poesia pura, un repertorio personale di testimonianze e suggestioni di un investigatore della riflessione.
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Chiara Visentin
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Più che bello o non bello lo considerei il più 'elegante' e 'fine' tra i poveristi. Sta di fatto che, forse a causa del suo perdurarsi in vita, non è affermato come altri poveristi colleghi.
A mio parere la tua affermazione è condivisibile ma dobbiamo stare attenti a non creare confusioni. Paolini resta uno dei maggiori esponenti dell'arte povera, movimento che è da considerarsi (per i pignoli diciamo almeno da quest'anno?) storicizzato. Ecco dunque che, riferendoci all'arte povera, concetti come "bello" e "contemporaneo" possono rivelarsi pericolosi e fuorvianti. Al di là di ciò mi sembra interessante questa tua osservazione sul "Paolini bello", se non altro perché ci offre l'opportunità di riflettere su un aspetto inedito, che è giusto e positivo considerare. Restando al concetto di "bello" per come credo lo intenda tu (perché si potrebbe far notte a discutere su questo), a parer mio, proprio in tempi recentissimi vi è un innegabile ritorno al gusto per il piacere estetico e al fascino di un puro appagamento dei sensi, e ciò accade per artisti giovanissimi, ma anche per quelli la cui scuola non considerava questi aspetti significativi nella prassi creativa. Interessante è che ciò avvenga anche per tendenze impegnate in una ricerca di tipo concettuale, minimal o nel campo dell'arte elettronica (perfino il progetto "History of Art for Airport" del "duro e puro" Vuk Cosic ha a che vedere col bello. C'è, in conclusione, un ritorno al "bello": secondo alcuni questo potrebbe rappresentare un insterilimento di ideali ormai superati (il concettuale su tutti), io preferisco leggervi un impegno positivo degli artisti ed una ricerca di nuove strade (varrebbe la pena di approfondire termini oggi in voga come contaminazione, multidentità e metamorfosi) se non altro per un riavvicinamento del grande pubblico all'arte contemporanea (e credo che questo sia solo uno dei motivi).
Secondo me è uno di quegli artisti contemporanei che -ancora- mira a ricreare il Bello, su questo vorrei avere vostro parere...