Le mostre che il Comune di Padova dedica a
Galeazzo Viganò (Padova, 1937) costituiscono il giusto tributo che merita un illustre concittadino. Dell’artista viene esposta tutta la produzione, dagli esordi alla maturità. Dislocata su tre sedi, la rassegna non tralascia nulla della pittura, del disegno e dell’opera grafica.
Lo sforzo dimostra quanto Caterina Virdis Limentani, che ha coordinato l’intera operazione, abbia voluto mostrare e, sopratutto, far conoscere di questo artista così antico e solo apparentemente lontano dal nostro tempo. Molti suoi commentatori hanno ritenuto la temporalità come struttura fondante le sue rappresentazioni. Infatti, non si può che fare i conti con un’alterazione della temporalità per arrivare a uno stato atemporale che consegna allo sguardo una sospensione delle cose e dei luoghi.
Ma prima di arrivare alla sua produzione tarda e matura è importante, proprio per capire le coordinate pittoriche più recenti, osservare i dipinti giovanili, quelli realizzati nella metà degli anni ’50, dove la presenza della figura era ancora ben marcata.
Il
Ritratto di Alfonsa (1956), il
Ritratto di Lucilla Savorgnan (1956) e il
Ritratto di Gerumin (1957-61), che richiamano quella ritrattistica che dominava nel Cinquecento nordico, ma anche le rappresentazioni di tipo religioso nel corso degli anni ‘60, come la
Triplice deposizione (1964), che hanno sempre come riferimento quello stesso contesto nordico.
Negli anni ‘70, Viganò porta la sua pittura nella dimensione in cui la possiamo osservare fino alle opere recenti. L’attenzione si sposta da una già scarsa presenza umana a una vera e propria scomparsa, salvo qualche sporadico esempio. Cominciano a essere rappresentate le architetture di edifici, quasi sempre solitari, sopra lembi di terra desolati (
Il Duomo di Padova, 1974). Iniziano le infinite variazioni di scorci veneziani (
La Salute, 1979), dove i palazzi, le chiese e le case sono percorsi da crepe, come se una scossa avesse colpito tutte le strutture, ma per una misteriosa forza fossero rimasti in piedi.
L’apoteosi degli spazi architettonici si stabilizza nel corso degli anni ’90, quando gli edifici sostituiscono i ritratti di un tempo. Allora ecco che tutto ciò che lo colpisce, tra Venezia, Chioggia e le isole della Dalmazia, entra come protagonista nella sua pittura. E qui il tempo, la luce e il colore, assimilati in questi anni nelle sue peregrinazioni marine, rendono tutta la sua pittura abbagliante, come lo erano le icone piene d’oro, a ricercare quella luce taborica, arrivata da Dio, per illuminare il Cristo trasfigurato. Viganò però usa solo questa tecnica, ma il suo cammino è diverso, non arriva al divino né il divino arriva a lui; Viganò arriva all’apice della coscienza tragica della vita e di quello che ogni giorno andrà irrimediabilmente perduto. Come in
Evento 2 (2007).
In altri dipinti vediamo galleggiare i solitari edifici veneziani o le case in antichi territori del dominio veneziano, lungo le coste adriatiche e poi greche, senza tempo e senza spazio, immersi e incastonati in una larga cornice dipinta d’oro, che negli angoli hanno pietre preziose, quasi sempre smeraldi o rubini. È forse il modo più riuscito, in epoca moderna, di proporre l’icona.