Nei giorni del vernissage della Biennale, Enzo Cucchi (Morro D’Alba, Ancona, 1949; vive a Roma) vestito di bianco, iconico come un filosofo, vigila sull’inaugurazione della sua mostra al Museo Correr e firma cataloghi. Ai Giardini e all’Arsenale, come testimoni dell’arte italiana, ci sono protagonisti che hanno agito prima o dopo l’abbuffata di pittura degli anni Ottanta. Da una parte l’arte povera di Penone e i video di Vezzoli al Padiglione Italiano; dall’altra al Padiglione Venezia un Vedova informale divide lo spazio con i video anni Settanta sepolti negli archivi dell’ASAC. Se la Fondazione Guggenheim e Pinault si contendono spazi espositivi e star glamour del contemporaneo, la Transavanguardia occupa le sale del Correr con quelle che il direttore Giandomenico Romanelli chiama le “stranianti figure” di un “demiurgo sfrontato e timido”.
La Transavanguardia si è presentata ufficialmente proprio alla Biennale del 1980, ma a molti frequentatori del contemporaneo questa mostra più che un’occasione vintage è parsa soprattutto un beneficio legato a ragioni di mercato. Indipendentemente da simpatie e fazioni, è un’esposizione ben curata, il cui valore sta nel numero di lavori e nella loro parata cronologica. La rassegna è un dispiegamento di forza, con pezzi generalmente di grandi dimensioni provenienti da musei come il Guggenheim di New York e Bilbao, lo Stedelijk di Amsterdam, il Castello di Rivoli.
Sorpassato lo scoglio delle pitture di fine anni Settanta e primissimi Ottanta, dove ciò che Ester Coen chiama “espressionismo sperimentale” dà forma a quella tipica ricerca di “forme banali e semplici”, con un uso del colore urlato e disarmante, si trova anche molta poesia. Cucchi, che poeta di versi lo è davvero, dispiega la sua vena metafisica nei disegni a carboncino su carta.
Dal cagnolino con albero di A terra d’uomo (1980) ai “disegni tonti”, fino alla tenera serie dei Disegni presi all’aria (1999), con inserti di pelliccia o cuoio. È una “ricerca di identità e risposte” legata alle leggende della sua regione e all’immaginario che continua in modo ancor più surreale negli anni Novanta, come testimonia La nuvola del Calvario (1992).
Se Fontana ebbra (1882) dà l’occasione di notare la filiazione romana della sua pittura, con echi degli impasti di Scipione, lo stranissimo Grande disegno della terra (1982), in pezzi di legno, non sembra nemmeno un Cucchi. Tuttavia, a dominare sono soprattutto le pitture in cui ad imporsi sono i “fantasmi della mente”, dove, secondo la Coen “il visionario, l’arcaico, l’ingenuo o il selvaggio ricompaiono sulle tele dipinte dai colori acidi e alti, volutamente stonati e squillanti” dopo un periodo di lunga assenza dell’immagine, impastati via via in un delirio di colore magmatico, con tanto rosso e arancio, strisciate di bianco a vivificare le tele popolate dai famosi teschietti e da corvi neri.
La mostra termina con tele giganti di soggetto “morale” dedicate all’Italia, tra cui si distingue Starnuto (2004), con un asinello che mangia nel suo sacchetto-picotin realizzato con la bandiera italiana, e una goffa sezione che fa dell’ironia sulla storia dell’arte, citando opere icona o facce di Picasso e van Gogh. Ma la colpa e l’origine di tutto, come nel gioco d’azzardo, è un’autentica ossessione per il “vizio assurdo” della pittura. Lo denuncia il pittore stesso: “la pittura è una cosa meravigliosa ma è anche una grande puttana; se non fai attenzione ci vuole poco perché i materiali ti abbaglino”, mentre occorre sempre conservare un grande “bisogno di meraviglia”.
stefania portinari
mostra visitata il 7 giugno 2007
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bell'articolo stefania!
i lavori dei primi anni dei transavanguardisti, attentamente vagliati da abo, sono quelli più belli. talvolta il critico "fa" l'artista...