Una Venezia diversa, più umana, rilassata e serena, rivive nell’obiettivo dei due fotografi. E nei nostri sguardi. La città più ritratta al mondo ricorda d’avere ancora argomenti da comunicare, a patto di trovare nuove prospettive.
Nessun maquillage estetico, nessuna esasperata ricerca del bello artistico nei 40 lavori fotografici di grande formato di Alessandra Chemollo (Treviso, 1963) e Fulvio Orsenigo (Milano, 1961). Solo la macchina fotografica a cavalletto che senza posa -realmente qui ad indicare la spontaneità dello scatto e l’instancabile perduranza dell’azione- indaga la città.
“Ogni fotografia è un certificato di presenza” sostiene Roland Barthes. E le immagini qui certificano presenze nelle quali Venezia s’invera, respira, si spoglia della solita, ingombrante e retorica patina da cartolina del grand tour e si riscopre proscenio di cromatiche e sonore narrazioni. Domina una forte ricerca del dato reale –l’occhio vedutista- che scevra di qualsiasi storicizzato apporto emozionale restituisce intatto il lato vivifico dello spazio e del suo tempo. L’azione dei due artisti esplora autonoma determinati campi della documentazione visiva: la rappresentazione della realtà, la costruzione dell’icona fotografica basata più sulla freschezza dell’atto che non sulla perfezione compositiva, l’anonimato dell’immagine (dell’autore e del soggetto che si riconoscono nello scatto senza però conoscersi) che origina una sorta di sguardo collettivo contingente, non svincolabile dal qui e adesso.
Venezia, il luogo della caoticità per antonomasia (binomio turismo/carnevale), riletto col pigro ritmo che ne scandisce invece le abitudini; l’assenza di posa e l’assenza di fretta recuperano intimismi che sono forse l’unica chiave di lettura, la fuga dal confine mentale dell’asse geografico Rialto – San Marco e l’immersione casuale nel sistema linfatico di calli e campi senza nome. Dove gli aspetti dimenticati e periferici, nella città senza periferia, riemergono silenziosi per diventare via via il punctum non premeditato –e imprevedibile– della scena.
La quotidianità del lavoro dei fotografi (durato quattro anni ma potenzialmente infinito) traduce la quotidianità della città in particolari talvolta così sfacciatamente normali da rivelarsi stranianti, seducenti. Letteratura verista: la bicicletta abbandonata nel campo, la donna con il carretto della spesa, la luce intensa che sbianca la Basilica o la foschia che annulla l’orizzonte, il muro scrostato o imbrattato da graffiti, la folla dell’imbarcadero o la solitudine del turista in Punta della Dogana, Vittore Carpaccio e la bancarella di souvenirs, gli sguardi che sorridono divertiti o che incedono assorti. C’è la tensione dell’esistere nel campionario di umanità che veloce, ritratta di passaggio in figure spesso sfocate, simbioticamente anima lo sfondo di architetture ora solo comprimarie.
“E’ difficile guardare queste fotografie fino a stancarsene” dice Agnes Kohlmeyer (che con Antonello Frongia cura la mostra) “sia per chi conosce Venezia, come anche per chi non ne ha il privilegio.” E proprio questo sguardo prolungato, il nostro e quello dell’ obiettivo, sembra perpetuare l’ esistenza di Venezia nel tempo.
gaetano salerno
mostra visitata l’ 8 ottobre 2004
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sarà....io mi sono stancata subito di guardarle..mi sembra una ricerca così banale e scontata.....affatto seducente
condivido il commento di Gloria: Venezia merita qualcosa di meglio