È un’epifania, forse una dichiarazione, quella che s’intuisce passando per la calle che conduce alla galleria veneziana. La vetrina della galleria è infatti ricoperta da una diafania nera, per certi aspetti mimetica, da cui baluginano spifferi di luce che ricordano le vecchie proiezioni cinematografiche. All’ingresso si è accolti in un ambiente completamente nero, un’anticamera che prelude al buio della stanza successiva, anch’essa rivestita di nero dal pavimento al soffitto. Nell’ambiente, uditivamente ovattato, un video senza sonoro: è
Il ciclope, in rigoroso bianco e nero, ultimo lavoro di
Debra Werblud (New York, 1957). Si tratta di un’opera complessa, realizzata combinando e montando assieme centinaia di fotografie e disegni, in modo tale da costruire una visione continua, in costante dissolvenza.
Sono vecchi edifici rurali, granai e depositi di attrezzi agricoli della prateria americana, vecchi ponti in legno su strade di campagna, tutti ugualmente ripresi dall’interno, in maniera tale da negare la vista dell’ambiente circostante, da cui entrano solo lame di luce tra le assi di legno rovinate dal tempo e dall’incuria. Spesso i fotogrammi indugiano su particolari architettonici, sull’intreccio delle travi che sorreggono la struttura oppure le capriate del tetto, quasi a voler sottolineare la trama e la capacità contenitiva delle strutture.
È infatti l’idea della detenzione illegale, del mondo che è possibile intuire solo dai sottili ritagli di luce -essendo caduti tutti i legami con quel mondo (non ultimi il diritto)- il soggetto caro a Werblud, che riesce con sottigliezza a proporre un lavoro politico basato solo su dinamiche visive, senza alcuna retorica o volontà propagandistica. Le mutazioni di luce, i sottili cambiamenti nelle tonalità dei grigi, nelle dissolvenze da un’immagine all’altra, inducono lo spettatore del video -contrariamente al prigioniero- a sentirsi privilegiato. Come colui che, nel platonico mito della caverna, ha avuto la possibilità di capire quello che c’è oltre alle ombre proiettate nel fondo della grotta.
Come di consueto, una succosa appendice alla mostra è visibile nell’abitazione della gallerista, in cui sono esposti alcuni dei più interessanti fotogrammi, collocati in un sandwich con vetro, in maniera tale di conferire profondità visiva alle immagini, e successivamente montati con inedite cornici in metallo. I lavori, con una spiccata trama geometrica, sono stati inoltre restroilluminati con luce al fosforo che, grazie alla tonalità fredda emessa, rendono il lavoro più astratto. E trasmette, forse, nella durezza di un’opera essenzialmente di denuncia, un po’ di speranza.