La ripetitività di un’azione, di un gesto, ma anche di un’esecuzione o di un
modus operandi può togliere il peso e privare di importanza qualsiasi operazione capiti di fare, sia essa determinata da volontà, necessità biologica o compiutamente agire artistico. Esiste un limite psichico oltrepassato il quale la ripetizione di un atto sfocia nella mania o nella maniera, in quella forma che è inevitabilmente
serialità. Eppure, non c’è alcuna ombra di stanchezza nel lavoro di
Hermann Nitsch (Vienna, 1938), in cui la complessa gestualità delle
aktionen messe in atto -ciascuna con un numero progressivo nel titolo- sfocia nel rito, con modalità che ricordano il culto religioso, ma con la fisicità e il sangue che evocano il lato dionisiaco e orgiastico. Pittura e azione teatrale sono, nel suo caso, complementari, essendo la pittura il frutto dell’agire e nel contempo supporto scenico necessario al rito: le quinte delle sue
feste presso il Castello di Prinzendorf sono le sue tele e, pur veicolando l’aspetto testimoniale, quasi documentaristico, sono l’aspetto più interessante di un approccio all’arte che è, ovviamente,
Gesamtkunstwerk.
È per certi aspetti narrativa la personale ospitata nella galleria veronese, che raccoglie lavori di pittura realizzati nell’ultimo anno insieme a opere con un taglio spiccatamente documentale. Ed è proprio una grande parete di foto a colori ad attrarre lo sguardo: una a fianco all’altro, si susseguono una trentina di scatti di media dimensione che raccontano il caos e l’orgia visiva di un’
aktion, un vorticoso susseguirsi di sangue e organi di animali, di uomini e donne nudi e coperti di macchie, lerci e con addosso l’odore di vita e di morte delle bestie sacrificate. Qua e là si colgono i visi assorti dei protagonisti, la seria e fredda determinatezza di Nitsch-sacerdote insensibile, crudele, ma che chiama a sé le forze della natura, impegnato in una divinazione dall’esito straziante e cruento. E, su tutti, i musicisti che soffiano dentro tromboni, tube, quasi sibille che annunciano un imminente capovolgimento cosmico.
Un video di particolare ruvidezza racconta la performance del 2004 al Burgtheater di Vienna, mescolando abilmente la crudezza e la follia del rito dionisiaco con la musica classica suonata da un’orchestra sinfonica. Le tele -con evidenti segni e schizzi di sangue- sono invece quasi tutte di grandi dimensioni, realizzate con una tecnica simile al dripping di
Jackson Pollock. In più di un caso sono allestite con mazzi di crisantemi e abiti talari collocati innanzi, sfruttando così la possibilità di contaminazione visiva con il rituale cristiano della morte ma anche, più sottilmente, con la celebrazione eucaristica. La materia, il sangue, ma anche i pigmenti si coagulano sulla superficie dopo esser stati elementi di un’inafferrabile liturgia. E, in ultima istanza, simbolo di vita.