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24
aprile 2009
fino al 9.V.2009 Brian Alfred / David Lindberg Verona, Studio La Città
venezia
Brian Alfred e David Lindberg, ovvero l’assedio alla realtà tra vissuto e astrazione. Due artisti americani di diverse generazioni accerchiano le certezze della visione negli spazi veronesi. E il piatto nitore dell’uno si rivela arma efficace quanto lo “sbrodolio” dell’altro...
“Abbiamo provato persino a Gardaland: niente da fare”. Con aria rassegnata, allo Studio La Città confessano che di occhiali 3d ne hanno recuperati un solo paio per far apprezzare tele, collage e video di Brian Alfred (Pittsburgh, 1974; vive a New York). L’artista non ha pensato di portarseli in valigia quando ha lasciato Brooklyn per la sua prima personale italiana nello spazio di Lungadige Galtarossa, dov’è abbinato al conterraneo David Lindberg. L’unico strumento ottico made in Usa nella cattedrale est sono i View-master della Sawyers, souvenir degli anni ’50 a cui l’artista ha sostituito le classiche vedute turistiche con le piatte immagini della mostra curata da Roberto Pinto.
In realtà, i collage – grazie ai quali Alfred è in collezione Guggenheim e Whitney – si possono apprezzare sia nella versione bidimensionale che affacciandosi sulla sua Majic window (la “j” al posto della “g” è puro slang) con indosso le lenti rosso-blu. L’equazione è piattezza=straniamento: del reale, dei due autoritratti all’ingresso, dell’arcobaleno e degli altri panorami. Ma piatte sono pure le stampe ukiyo-e del periodo Edo conosciute in Giappone, dove il principe del ritaglio ha trovato moglie.
Il 3d torna nel cellulare vibrante dell’animazione video col sottofondo di campionature sempre più assordanti. Sullo schermo appare un vulcano, un simil-Fujiyama che invade la parete ed erutta, ma per fortuna solo nel majic world di Brian Alfred.
In questo nitore iper-warholiano (il guru del pop qualche sbavatura se la concedeva) s’innestano le altre due sale dello Studio La Città, occupate da David Lindberg (Des Moines, 1964; vive ad Amsterdam). “La precisione del primo”, assicura la gallerista Hélène De Franchis, “dialoga con lo sbrodolare di David, che ha colato colore su una rete appesa”. Delle resine epossidiche pigmentate, l’artista americano ha fatto una cifra mutuata dall’architettura, come molti dei materiali dei suoi assemblage: le schiume espanse, usate da isolante, s’induriscono se cosparse di resina e fibra di vetro.
Mentre per Alfred il modello pop è Andy Warhol, Lindberg trova il suo mentore in Claes Oldemburg. Ma al contrario dello svedese, per l’americano è ciò ch’è soft a divenire hard.
La rassegna evidenzia però un’evoluzione. Se all’inizio Lindberg versava resina su lastre che poi capovolgeva, creando stalattiti trasparenti come concrezioni di vetro, ora preferisce le campiture piatte della sua glassa colorata e si riappropria della tridimensionalità, rivestendo oggetti a lui stesso appartenuti. Involucri di hamburger Mc Donald’s, pizza e tonno Rio Mare, ma anche post-it, email e scatole di Black&Decker.
Da una parte un magma indefinito da 350.000 a.C. – come titola il fiore simbolo della mostra – dall’altra gli object trouvé scartati da un condominio dell’era postindustriale e raccolti dalla curatrice Angela Madesani nelle Rooms for the things to come.
In realtà, i collage – grazie ai quali Alfred è in collezione Guggenheim e Whitney – si possono apprezzare sia nella versione bidimensionale che affacciandosi sulla sua Majic window (la “j” al posto della “g” è puro slang) con indosso le lenti rosso-blu. L’equazione è piattezza=straniamento: del reale, dei due autoritratti all’ingresso, dell’arcobaleno e degli altri panorami. Ma piatte sono pure le stampe ukiyo-e del periodo Edo conosciute in Giappone, dove il principe del ritaglio ha trovato moglie.
Il 3d torna nel cellulare vibrante dell’animazione video col sottofondo di campionature sempre più assordanti. Sullo schermo appare un vulcano, un simil-Fujiyama che invade la parete ed erutta, ma per fortuna solo nel majic world di Brian Alfred.
In questo nitore iper-warholiano (il guru del pop qualche sbavatura se la concedeva) s’innestano le altre due sale dello Studio La Città, occupate da David Lindberg (Des Moines, 1964; vive ad Amsterdam). “La precisione del primo”, assicura la gallerista Hélène De Franchis, “dialoga con lo sbrodolare di David, che ha colato colore su una rete appesa”. Delle resine epossidiche pigmentate, l’artista americano ha fatto una cifra mutuata dall’architettura, come molti dei materiali dei suoi assemblage: le schiume espanse, usate da isolante, s’induriscono se cosparse di resina e fibra di vetro.
Mentre per Alfred il modello pop è Andy Warhol, Lindberg trova il suo mentore in Claes Oldemburg. Ma al contrario dello svedese, per l’americano è ciò ch’è soft a divenire hard.
La rassegna evidenzia però un’evoluzione. Se all’inizio Lindberg versava resina su lastre che poi capovolgeva, creando stalattiti trasparenti come concrezioni di vetro, ora preferisce le campiture piatte della sua glassa colorata e si riappropria della tridimensionalità, rivestendo oggetti a lui stesso appartenuti. Involucri di hamburger Mc Donald’s, pizza e tonno Rio Mare, ma anche post-it, email e scatole di Black&Decker.
Da una parte un magma indefinito da 350.000 a.C. – come titola il fiore simbolo della mostra – dall’altra gli object trouvé scartati da un condominio dell’era postindustriale e raccolti dalla curatrice Angela Madesani nelle Rooms for the things to come.
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beatrice benedetti
mostra visitata il 17 aprile 2009
dal 28 marzo al 9 maggio 2009
Brian Alfred – Majic Window
a cura di Roberto Pinto
David Lindberg – Rooms for things to come
a cura di Angela Madesani
Studio La Città
Lungadige Galtarossa, 21 – 37133 Verona
Orario: da martedì a sabato ore 9-13 e 15.30-19.30
Ingresso libero
Cataloghi disponibili
Info: tel. +39 045597549; fax +39 045597028; lacitta@studiolacitta.it; www.studiolacitta.it
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