C’è una donna, bella e fiera, in piedi davanti al tavolo, su cui domina una tovaglia giallo ocra. Il suo sguardo è assorto, forse assente, perso nel blu intenso dell’abito e inghiottito dall’enorme vetrata del salotto, che fa intravedere un grande giardino di umbratile, verde freschezza. La donna è Giulietta Catellini, il ritratto, arioso, nella poetica di Mario Cavaglieri -di cui la donna è modella prediletta nonché amata- segna uno spartiacque tra un “prima” intimista e un “dopo” brillante e lucido. È il 1913, siamo alla vigilia della Grande Guerra, un periodo febbrile per l’arte europea, percorsa dai fermenti (Parigi, Vienna, Monaco) delle avanguardie, dei simbolisti, della secessione, dei fauve, dei postimpressionisti. Ma lui, Cavaglieri, è di Rovigo e agli ismi sembra dar poco credito. Così come poco gli interessano i paesaggi, preso com’è dal fascino di quei salotti frequentati abitualmente da dame seducenti e ben vestite, quella società Belle Époque della quale egli stesso -nato nel 1887 da una ricca famiglia borghese di origine ebraica- conosceva virtù, aspettative e vizi.
Certo, agli inizi aveva studiato con un tradizionalista come Giovanni Vianello, ma ben presto aveva lasciato da parte quel classicismo provincialotto e un po’ di maniera per immergersi nel ricco ambiente veneziano di Ca’ Pesaro e fare il salto di qualità -con Felice Casorati e Umberto Boccioni, passando da una Biennale all’altra, e a Parigi- nell’arte che conta. Ma la sua pittura, pur ricevendo il plauso di critici importanti come Roberto Longhi, ha sofferto di un certo elitarismo. Un po’ snob, forse, Cavaglieri nel suo voler restare indipendente dalle avanguardie del suo tempo per recuperare, invece, le ricchezze della “sua” tradizione, quella veneta, che aveva nel colore la sua cifra più vistosa.
Ecco allora che la mostra di Palazzo Roverella, nella sua Rovigo, assume il tono, più che della solita retrospettiva-riesumazione, di una vera e propria consacrazione, per un artista che, secondo Vittorio Sgarbi –curatore con Alessia Vedova della rassegna- è una delle personalità di spicco del Novecento.
Lo è nelle opere dei primi anni del secolo, improntate ad un intimismo domestico e quotidiano (Gilda al pianoforte, 1907, Teresina che cuce presso la finestra, Fanciulla che lavora e La cucitrice, 1909), che paiono riecheggiare certe liriche di Gozzano. Ma lo è anche nei lavori degli Anni Dieci e Venti, che si spostano progressivamente verso la descrizione degli interni borghesi e dei loro frequentatori, colti mentre professano i loro riti (lo spuntino ne L’atelier del pittore, Una tazza di the, Conversazione), partono per un viaggio, suonano l’arpa o sembrano semplicemente compiacersi della propria ricercata eleganza (Ritratto, 1920). “Impressionismo sostanzioso”, del resto lo definì proprio Longhi, mettendone in luce l’utilizzo di una tavolozza originale, tutta contrasti e “colori primordiali”: i blu, i rossi, gli arancioni, caldi e avvolgenti. Ma ciò che fa pensare d’istinto al primo Matisse in realtà è, come si diceva, colorismo della più solida tradizione veneta. Nelle opere di Cavaglieri si va ben oltre la ricchezza degli interni immortalati da un Vuillard o da un Bonnard: si respira la ridondanza opulenta, sensuale, quasi barocca degli scritti di D’Annunzio. Basti osservare il virtuosismo con cui Cavaglieri rende le vetrate nel Ritratto di Wanda con levriero (d’inciso la donna, in posa teatrale, sembra un’Eleonora Duse), i vasi giapponesi, gli orologi e le consolle Luigi XV, muti status symbol di una società ormai decadente e presto anche decaduta. E che egli stempera definitivamente, negli ultimi anni di vita, nella pacata bellezza di Peyloubère, pura campagna francese, dominata da stagni e fiori di campo.
elena percivaldi
mostra visitata il 23 febbraio 2007
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tante parole, ma cosa c'è da vedere in mostra?
E vai a vederla, no? Troppa fatica forse? hehehe