Tesse continuamente la tradizione radicata nella storia e insieme il mito intriso di magia, l’analisi delle vicende private e la visione del paesaggio collettivo. Per Kiki Smith (Norimberga, 1954), in mostra alla Fondazione Querini Stampalia, è oggi predominante ordire una nuova forma di esplorazione. Organi interni, scheletro, muscolatura e liquidi sono frammenti del passato e ad essi si sono sostituite figure piene, sovrapposte ad un curioso indagare gli aspetti dominati dall’intelletto. Dichiarava l’artista qualche anno fa: “Il nostro corpo è stato fatto a piccoli pezzi e ha bisogno di guarigione, occorre cicatrizzarlo, serve un processo curativo. La nostra società è molto frammentata, ogni cosa è divisa nelle dicotomie uomo/donna, corpo/mente e tutte queste divisioni necessitano di venire rammendate.” Proprio l’aver cucito insieme i pezzi di un percorso permette a Smith di rendere la complessità dell’esperienza umana immergendo se stessa nei trascorsi femminili appartenuti ad altre epoche.
La mostra va a rappresentare la dimensione quotidiana di figure medioevali, codici antichi di una Venezia settecentesca intrisa di cultura europea esportata nell’America delle colonie e reimportata dall’artista per emendare i segni del tempo.
Gli stencil ornamentali alle pareti rafforzano l’allusione di una dimora rassicurante, in perfetto New England style. Sono i dettagli a rendere narrativa la trama della vicenda, sono le parole recitate come in un rosario a perpetrare il sapore di antiche cantilene: Long Before Now /A long time ago/ before you were Born/ your great grandmothers/ and their sisters and aunts and grandmothers/ thought to your future.
Il progetto, a cura di Chiara Bertola, ha unito con un filo rosso l’occupazione abusiva a quella domestica nel terzo piano della Casa Museo Querini, con l’idea di mostrare da un lato lo squattering in laguna risalente a tre secoli fa, e dall’altra il mondo intessuto di racconti personali di una casa americana del XVIII secolo.
L’installazione nel lungo tavolo del salone, sopra cui posano le sculture di dame in ceramica bianca, crea un passato di storie passate di madre in figlia e a noi tramandate da disegni assemblati in catalogo, come fossero figurine di un album. Esattamente come le aveva ritratte Pietro Longhi, ma qui riunite mentre lavorano insieme, portano il cibo ai loro bambini, leggono ad alta voce, oppure scelgono di stare nell’ombra, in compagnia degli animali, tormentate dagli spiriti, in consultazione di oracoli, fino a svanire nel nulla. O piuttosto a danzare il loro futuro, quasi a rivendicare il diritto ad una migliore esistenza.
Nelle stanze della Fondazione la sua indagine riporta un gineceo di donne nobili o decadute, inquiline, amanti, bambine, viandanti o diseredate, sibille e profetesse, L’artista accosta specchi dove c’erano specchi, colloca soffioni in cristallo sotto una teca al posto di un bozzetto del Canova, dipinge donne visionarie al nitrato d’argento e sognatrici in rilievo su carta del Nepal. Infine per chiudere il cerchio allarga il suo lavoro alla terza dimensione: una bambina ferma davanti alla finestra che guarda all’esterno verso il cielo ha qualcosa di sovrannaturale e umano e allo spettatore può sembrare che anche le nubi mosse dal vento fuori siano vere. Ora come allora.
raffaella guidobono
mostra vista l’8 giugno 2005
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ecco appunto, du palle... mò sfascio tutto
Ma ancor di più, quello che maggiormente si svela ed emerge, è l'atmosfera tutta femminile. L'artista esprime, con poesia e estrema delicatezza, tutto il mondo -soprattutto interiore- della donna, nel quoditiano vivere e nei diversi luoghi del suo vivere, soprattutto domestico. Una mostra perfetta, emozionante, sorprendente, dove i piccoli e curati dettagli -un fiore in un vasetto, una foglia a terra- hanno contribuito a creare un caldo e coinvolgente ambiente.