Di Damien Hirst (Bristol, 1965) si sa quasi ogni cosa. Si sa che è stra-famoso, stra-pagato, stra-criticato, stra-kitsch e stra-megalomane. E per questo ci si dimentica di parlarne in qualità di artista-che-fa.
A rafforzare la sua aura da divo esagerato, poi, concorrono svariati insight intraprendenti (vedi il Ristorante Pharmacy a Londra), commerciali (come il videoclip dei Blur) o ostentatamente provocatori (vedi opere come Due che scopano e due che guardano, New York, 1995). Eppure, nonostante tutto, l’immaginario lucido, balsamico, che Hirst ha creato ancora lo rincorre, o lo precede, a seconda del lato di percorrenza. Se si guarda alle sue spalle, infatti, al suo passato vengono incontro una costellazione solida di sferzate, di scosse estetiche che hanno fatto, anche se per poco, tremare il cosiddetto Sistema dell’Arte.
Se si guarda al presente, al percorso recente, l’elemento dissacratore dei lavori di Hirst non ha fatto che virare, alterandosi un po’. E New Religion ne è un segno, una premonizione. A Palazzo Pesaro Papafava, in laguna, sono esposte una trentina di opere create nel 2005 per lo spazio londinese della Paul Stolper Gallery. Una produzione dunque non esattamente attuale, ma ben inserita nel clima veneziano. Questa mostra fa parte di una serie di eventi satellite che danno vita all’ondata caotica di inaugurazioni della 52esima Biennale d’Arte.
Alle pareti si rincorrono Vita e Morte, Visione e Allucinazione, l’una di fila all’altra, variegate, su quella nera schiena del tempo che Hirst domina appieno. Solo lungo la dorsale di una religione, infatti, si riescono a filtrare queste quattro dimensioni.
Dalla religione cattolica, ad esempio, vengono prese a prestito le abiezioni, le ricadute, le maschere, le devozioni e le opulenze che tornano cambiando rito e veste. La scienza ormai, infatti, è diventata surrogato acclamato della religione, suo sostituto imperfetto. E l’andamento medicale delle stampe alle pareti lo ricorda, ad ogni riquadro (The Stations of the Cross).
In New Religion il tema della passione intesa come ritorno al corpo è un rimando diretto al dolore (politico) che non restituisce la grazia dell’espiazione. Ecco perchè per ogni santo c’è un nuovo ritrovato della chimica farmaceutica (New Religion, Sky) e fra le nazioni del mondo atomico civilizzato si possono contare tredici apostoli (The Last Supper). Di maggiore impatto, invece, la ricostruzione fotografica di un corpo stigmatizzato, un paziente crocifisso sul lettino di una sala operatoria. Significativa l’immagine centrale della composizione, The Sacred Heart, spostata, forse intenzionalmente, in zona pelvica. Un cuore trafitto da bisturi e slavato dall’acqua (borica/santa/purificatrice), acqua versata da dosatori d’acciaio.
Ancora da vedere, di questa personale, sono i kit cassettonati di Damien Hirst. All’interno, immersi in raso bianco, sono deposti i simboli, gli oggetti sacri pronti a celebrare i nuovi misteri della scienza. Un crocifisso di legno intarsiato di pillole. Un cuore da ex voto trafitto di lamette. Un’immancabile farfalla pulcra mortis causa. E un immancabile teschio di bronzo (The Fate of a man). Una calotta piccola, ricamata da una mascella con tanto di canini in doppia fila. Un cranio di chi non ha fatto tempo a cambiare nemmeno i propri denti da latte.
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ginevra bria
mostra visitata l’8 giugno 2007
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