La “rivoluzione estetica” di Yasumasa Morimura (Osaka, 1951) approda alla Biennale di Venezia. L’artista giapponese propone una serie di opere che, attraverso una grottesca e ironica critica al rapporto tra Occidente e Oriente, si pongono l’obiettivo, come lo stesso artista ha dichiarato, di “dragare la storia, trasferirla nella mia arte e placare Susanoo e la sua influenza in essa”. Requiem for the XX Century segna un’evoluzione significativa del percorso artistico-esistenziale di Morimura, che fin dagli esordi si è distaccato dall’ukiyo-e di Hokusai e dai suibokuga di Sesshu per avvicinarsi alla “western art” e in particolar modo a Van Gogh, Duchamp e Picasso.
L’artista ora non stravolge più le categorie gerarchiche su cui si fonda l’opposizione tra il mondo occidentale e quello asiatico rivisitando i quadri di numerosi maestri della storia dell’arte, come Leonardo Da Vinci, Goya, Manet, Rembrandt, Van Gogh e Velázquez, o vestendo narcisisticamente i panni di famose attrici e artiste, tra cui Brigitte Bardot, Audrey Hepburn, Frida Khalo, Vivien Leigh, Marylin Monroe e Cindy Sherman. Abbandonata la figura dell’onnagata del teatro Kabuki, da cui aveva tratto ispirazione per i suoi travestimenti, Morimura re-interpreta alcuni personaggi, tutti esclusivamente uomini, che hanno segnato in modo indelebile il secolo appena trascorso, un periodo “intriso di valori maschili” secondo lo stesso artista.
Nonostante in passato abbia sintetizzato il rapporto tra Occidente e Oriente in quello tra uomo e donna attraverso l’immaginaria femminizzazione del maschio asiatico e la fusione di maschile e femminile in un’ideale di assoluta perfezione, l’artista unisce ora due elementi, quello storico appartenente alla memoria collettiva e quello del ricordo personale, per produrre l’entusiasmo e la commozione in cui poter ritrovare la sua personale idea di bellezza.
Morimura, pertanto, mette in scena icone del calibro di Che Guevara, Einstein, Hitler nella versione chapliniana de Il Grande dittatore, Lenin, Mao e Oswald, le cui fotografie, seppur ricostruite rispettando la situazione originale in cui sono state scattate, vengono ricollocate in uno scenario esclusivamente giapponese. Usando il proprio corpo come una materia plasmabile da poter camuffare ad arte, l’artista crea così un’immagine fedele all’originale ma stravolta nel significato, che provoca nello spettatore un senso di forte straniamento.
La scelta di impersonare uomini realmente esistiti o fatti storicamente accaduti che risalgono al massimo fino al 1980, anno in cui per Morimura è finito in realtà il XX secolo, scaturisce non solo dall’influenza che certi personaggi o eventi hanno avuto sulla sua formazione sociale, politica e artistica, ma soprattutto dalla consapevolezza di appartenere al secolo scorso e di non riuscire ad “allinearsi al ritmo esasperato dell’arte contemporanea”. Un’arte che ha disperso “quei fondamenti capitali con cui sin dall’adolescenza si è nutrito, espressi proprio da quel mondo occidentale che oggi li trascura e pare abbandonarli in favore di un sistema che ogni istante necessita nuove forme -e non contenuti- per sopravvivere a se stesso”. Attraverso il travestimento, prodotto con “meticolosità quasi maniacale”, Morimura trascende quindi i limiti del proprio corpo, che diviene zona di confine dell’identità, di ibridazione tra l’io e l’altro, tra una cultura e l’altra, proponendosi allo spettatore come un “agnello sacrificale”. Indicativo è che il cambiamento di soggetto avvenga attraverso l’ambigua figura di Yukio Mishima, di cui è rielaborato in un video il discorso tenuto nel 1970 a quattro suoi seguaci appartenenti all’Associazione degli Scudi presso il Ministero della Difesa prima di uccidersi per seppuku. Un adattamento che è rappresentativo della stessa poetica di Morimura soprattutto nella sua ultima parte, quando l’artista si domanda per quale motivo gli artisti siano prigionieri di forme espressive che negano la loro stessa identità e, constatando che nessuno è disposto a svegliarsi, a seguirlo e a muovere un dito per l’arte, decide di smettere di credere nell’arte e urlare “Banzai! Banzai! Banzai! Banzai! Viva l’arte! Banzai! Banzai! Banzai!”.
L’artista esalta così la propria soggettività, come dimostra anche la sua breve videointervista con cui introduce il pubblico nel suo studio di Osaka, e segna il passaggio da un’identità tradizionale e convenzionale a una in continua metamorfosi che gli permette di “evidenziare la differente percezione che l’io può avvertire di se stesso e la capacità dell’uomo, dell’artista, di sperimentare un ruolo alternativo”.
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Un'ottima mostra. Una delle migliori collaterali della Biennale.
bello