Dopo tanti ritratti, Venezia ama ancora farsi guardare. Rimane la bellezza morente e immortale da romanzo di Hofmannsthal, ma è perduta la vanità di un tempo, subordinata al bisogno di ritirarsi fra le pieghe dell’animo, per essere capita più che ammirata. Un’operazione cerebrale, racchiusa qui nella personale dell’artista austriaco
Eduard Angeli (Vienna, 1942; vive a Vienna e Venezia) e nel suo lavoro degli ultimi otto anni, quarantacinque opere pittoriche di vario formato dedicate alla città lagunare.
Dimessa e dimenticata, Venezia appare sublime, lontana dal pulsare continuo dei quartieri appartenuti ai dogi e ora ai turisti, immersa in un silenzio tangibile che l’avvolge, impedendole di invecchiare. Angeli indugia sull’equilibrio dinamico con il quale pietra, acqua e luce sfidano le leggi della fisica: leggerezza e trasparenza sostengono le gravità di edifici e ponti fino a diventarne opposto completamento; il bagliore inconsistente della nebbia inghiotte lo spazio e il tempo, come un buco nero. Non è un mistero così che il segno del pittore, senza preavviso, si perda dietro una calle, lungo la fondamenta (la serie
Nebbia) o si duplichi nello specchio di un canale.
Passando indistintamente dall’olio al pastello, dal gesso al carboncino, fino alla sanguigna e variando i supporti (tela, carta, juta), Angeli coglie l’anima ingabbiabile di una città, la varietà delle atmosfere e delle architetture continuamente provocate dalla salsedine e dalla luce. L’artista sottrae bellezza a quella stessa bellezza rea di aver accecato i poeti nel mito, all’eleganza briosa degli schizzi ruskiniani che, come i marmi istoriati dei palazzi, era solo apparenza e, con finto distacco, si orienta su geometrie spigolose (la serie
Arsenale), prediligendole alle ridondanze tardo-gotiche e barocche.
Una pittura paziente, di osservazione. Dalla casa-atelier del Lido il punto di fuga diventa sconfinata orizzontalità; labile linea che divide, o avvicina, il mondo dei flutti e delle nuvole (moltissime, diverse per dimensione e tecnica, le tele dedicate alla laguna), ritmata dai campanili delle chiese, trafitta dai pali conficcati nei fondali sabbiosi, da isole affioranti come ciuffi d’erba, da punti luce di mattone rosso nella monocromia delle campiture bluastre o verdastre (
Torcello,
San Servolo,
Due Isole,
Torcello-Notte, le panoramiche
Venezia-Giorno e
Venezia-Notte).
Ma è anche la discesa nell’umido dedalo di strade, l’occhio che si perde in spazi sommessamente citati (
Calle,
447,
Casa,
Ponte,
Bar,
Fabbrica di Vetro,
Faro), aggirando gli angoli retti di palazzi e rii (la serie
Canale), le strozzature dei sottoportici (
Sotoportego), le volte dei ponti, oltre i quali è serbato un pensiero, un ricordo che come il luogo della rievocazione da pubblico diviene privato (
La Chiesa di Bruno,
Il Cortile di Julie) e dal quale, di conseguenza, qualsiasi presenza umana, evocata talvolta da una luce in lontananza o da una finestra semiaperta, è bandita.
Una pittura dell’anima, metafisica eppure normalissima, in cui la condizione esistenziale – dell’essere e non dell’esserci – è doppia, come le risa e gli sguardi della folla assente dietro cui si potrebbero forse solo intuire malinconia e solitudine.