19 dicembre 2019

Bucarest, trent’anni dopo Ceausescu. Tour nella Capitale delle contraddizioni

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Poche gallerie, l'ombra di Dracula in versione pop e qualche museo che cerca di riprendersi la memoria guardando al futuro. Perché nulla è come sembra nella “città della gioia” a trent'anni dalla caduta del suo carnefice

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Leggenda vuole che Bucarest sia stata fondata da un pastore di nome Bucur in un non ben precisato momento del Medioevo. Coincidenza o no, il fondatore condivide l’etimo con bucurie, “gioia” in rumeno. Sia che si tratti di un augurio sia che fosse solo spiccata autoironia, oggi la “Città della gioia” accoglie i suoi visitatori con un ventaglio di contraddizioni e ossimori.

La capitale rumena presenta una storia tanto travagliata quanto variegata: incendi, terremoti e occupazioni militari da parte di ottomani, russi e austriaci, l’hanno resa un crogiolo di giustapposizioni, convivenze e stratificazioni. A Bucarest, come generalmente in Romania, lontane radici latine con strette parentele slave e influenze turche, si confondono e intrecciano quotidianamente tra forti contrasti architettonici, sociali e culturali.

Altra caratteristica che permea fortemente l’atmosfera cittadina è la consunzione: palazzoni di cemento comunisti convivono vicino alle aggraziate e appassite architetture belle époque della fu “Piccola Parigi”, inframmezzati, qua e là, dalle nuove architetture d’acciaio e vetro del capitalismo; il tutto forma uno sfondo armoniosamente délabré di larghi boulevard che sfociano in piazze metafisicamente ampie, costeggiate da alte cortine di palazzi cinerini.

Bucarest sembra dispiegare una condizione eteroclita: gli opposti qui si saldano come sui due lati di una calamita, opulenza e miseria, bellezza e degrado si riversano l’uno nell’altro completandosi, o talvolta sublimandosi. Girare per il centro storico di Bucarest, dall’affascinante Lipscani, cuore commerciale fondato dai mercanti di Lipsia, a Calea Victoriei, antico e importante viale urbano, fino ai grandi parchi che costellano i dintorni del centro, significa balzare tra epoche diverse, saltando da Vlad Țepeș l’Impalatore ai tempi della Guardia di Ferro, dall’ondata consumista d’oggi agli anni bui di Ceauşescu.

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“Mother Tongue”, presso Sector 1 Gallery, 2019

L’ombra del Comunismo per osservare la città

Proprio dal periodo comunista vale la pena iniziare un tour della città. Epoca storica rimpianta e al contempo respinta, ha lasciato ingombranti tracce a causa della follia megalomane e magniloquente del dittatore romeno come la Casa Poporului, Casa del popolo, annoverato come il palazzo più grande e pesante d’Europa. Qui, tra vasti saloni marmorei, imponenti scalinate e quasi mille sale, troviamo il Parlamento rumeno, e, dal 2004, il Museo nazionale d’arte contemporanea, MNAC, che ha ereditato le collezioni accumulate durante gli anni di regime.

Al MNAC abbiamo visitato parte di questa collezione nella mostra “Seeing History 1947-2007 The MNAC Collection”, raccolta antologica di opere in vari media dall’occupazione sovietica fino all’entrata nell’Unione Europea. Questa retrospettiva, nei termini del team di curatori, “affronta un archivio vasto, eclettico, complicato e imbarazzante”. La mostra riflette i meccanismi di commissione statali con finalità di propaganda avvenuti fino all’89, quando non era di certo la qualità a guidare le scelte curatoriali, e il difficile periodo successivo di transizione alla democrazia, in cui a fatica è emersa una nuova generazione di artisti. “Seeing History” stordisce e disorienta per la quantità di opere, tuttavia lascia inevasa la domanda sulle identità dell’arte romena; forse i tempi non sono ancora maturi per una redde rationem. Ciononostante, anche la Romania ha prodotto artisti notevoli negli ultimi decenni: dalle vendite record alle aste di Adrian Ghenie, alla gloria postuma di Geta Bratescu, dalla versione del concettuale oltrecortina di Ion Grigorescu all’arte sociale di Dan Perjovschi, passando poi per i più giovani Mircea Cantor, Victor Man e Apparatus 22 che hanno ottenuto riconoscimenti soprattutto all’estero. La collezione del MNAC accoglie anche alcuni dei succitati, ed emerge come le ultime generazioni guardino con più disincanto e attenzione alle mutazioni sociali che hanno investito il paese, dando i primi, timidi segnali di cosa vuole essere l’arte rumena.

Per chiarire un po’ meglio le origini storico-artistiche, è consigliabile fare una tappa al Museo Nazionale d’Arte, nell’ex palazzo reale su Calea Victoriei. Qui fra le numerose opere, sono conservate le icone e gli affreschi bizantini e medievali provenienti da chiese e monasteri di tutta la Romania, spesso demoliti nel corso del XX secolo in quello che è stato rinominato il Ceasushima, mix di Ceauşescu e Hiroshima. Nella sezione moderna si trovano gli highlight del museo, la sala dedicata a Constantin Brancuşi, scultore rivoluzionario che agli inizi del Novecento ha fatto dell’essenzialità un punto di svolta per la scultura modernista. Nei tre piani del museo si passa da dipinti a caftani e da troni a iscrizioni lapidarie per un viaggio nella storia rumena dagli albori ai nostri giorni.

A completare un tour ideale seguendo l’itinerario dei contrasti sono il Museo del Kitsch e il Palatul Primaverii. Il primo è una raccolta di oggetti artigianali e non, che giocano con i cliché del comunismo, dei gitani e soprattutto di Dracula, insomma pura “cultura” pop. Il secondo è l’ex residenza ufficiale di Ceausescu, sfarzoso e sultanesco palazzo di 150 stanze con spa, che fece scalpore all’indomani della rivoluzione per i bagni rivestiti d’oro.

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Seeing History – 1947 – 2007. The MNAC Collection”, presso MNAC, Bucharest, 2019

I giovani artisti che indicano cosa vuole essere l’arte rumena

Il mercato dell’arte romeno è quasi inesistente, poche le gallerie in città. Nella zona a nord, vicino alla Casa della Stampa, altro monumentale complesso comunista, troviamo, fra uffici e vecchi capannoni, le gallerie Nicodim e Sector 1. La prima propone artisti internazionali e giovani, alcuni già established come Ghenie accanto ad altri emergenti come Ciprian Mureşan; Nicodim cerca di portare mode e stili internazionali, grazie anche alla sua seconda sede a Los Angeles. Poco oltre c’è Sector 1, galleria che si focalizza sulla pittura e sugli artisti di Cluj, altra città con una fervente scena artistica. Tornati in centro, nel residenziale quartiere ebraico, si trovano le gallerie Suprainfinit, Anca Poterasu e gaep, più focalizzate sull’arte giovane romena, altra menzione spetta ad Andreiana Mihail Gallery che inaugura prossimamente uno spazio con Ion Grigorescu.

Più dinamico è invece il panorama delle iniziative no-profit, con vari, piccoli spazi indipendenti che nell’autogestione sopravvivono soprattutto grazie alla tenacia e alla passione dei loro gestori. Come Raluca Voinea curatrice a tranzit.ro, associazione culturale sponsorizzata da Erste che ha costituito un vero e proprio network di spazi espositivi nell’Europa dell’est e svolge qui funzione di centro d’arte; o Salonul de proiecte, uno spazio di ricerca sperimentale per l’arte romena, e ODD, piattaforma multidisciplinare creata da 9 curatori e artisti locali, che organizza festival, proiezioni, incontri. Nella generale latitanza dello Stato fa eccezione l’Istituto Rumeno di Cultura che, sia in patria sia all’estero con una rete di centri, promuove, fra grandi difficoltà, la cultura rumena. Bucarest, insomma, invita i suoi visitatori a una scoperta disincantata, lenta e smaliziata, poiché nulla è come sembra nella città della gioia.

 

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