I Wonât Look Back Anymore, la terra desolata delle saline del SeÄovlje Salina Nature Park di Fontanigge: una prospettiva esistenziale.
Quando abbiamo effettuato il primo sopralluogo con il curatore Clemente Miccichè, le saline sembravano sterminate e lâidea di lavorare in quel luogo appariva complessa, ingestibile, a tratti impossibile. Qualunque cosa collocata in quel luogo si sarebbe persa, divorata dal sole e dallo spazio. Attraversando le saline, vedevamo i nostri piedi rompere quella parte superficiale di terreno ancora carica di sale, che aveva assunto un colore molto piĂš chiaro rispetto al suolo sottostante. Questo era un indizio che si poteva âdisegnareâ, un pensiero, per me automatico, quando un oggetto risponde al tocco con un cambiamento repentino di colore. Il curatore del progetto e io ci eravamo giĂ sentiti per telefono e avevamo concordato in linea di massima un progetto che ci sembrava interessante. Tuttavia, dopo aver attraversato la salina di Fontanigge, al nostro ritorno in appartamento a Pirano, abbiamo capito che di quel progetto non sarebbe rimasto nulla e che avremmo dovuto ricominciare tutto da capo. Lâimpatto di quel luogo cancellava tutti i nostri progetti e ne chiedeva di nuovi.
Sicciole è il paese adiacente alle saline e le storie dei sicciolani sul lavoro nelle saline, che raccontato ogni volta che si affronta il discorso, sembrano storie mitiche cariche di ricordi tramandati, aggiustati, rimessi a posto. Parlano della vita in quelle case di cui non rimane molto, un lavoro faticoso, metodico, duro, dove il sole ti spezza. Passarci anche un solo pomeriggio non è semplice. Una delle caratteristiche fondamentali per la sopravvivenza e per garantire il progresso alla comunitĂ dei salinai era riuscire a prevedere il meteo, in modo da avere un vantaggio sulla pioggia e salvare il raccolto del sale. Un punto specifico di osservazione era verso le montagne, dove soffiava la Bora e il Maestrale, direzioni da cui i salinai attendevano lâarrivo di un vento che portava la promessa di un clima mite. La decisione era presa: lavorare con il vento avrebbe portato il progetto a confrontarsi direttamente con tutto lo spazio, senza temere le dimensioni del luogo. Chi si avvicinava a quel luogo sospeso nel tempo avrebbe potuto avere coordinate precise per comprendere i venti e le preziose informazioni al suo interno. Volevamo trasformare le saline in un archivio, effimero, di venti: il loro movimento avrebbe costituito il senso dellâopera.
Ho pensato che, a fornire le coordinate di quello spazio desolato, potesse essere unâenorme rosa dei venti, disegnata sul terreno bianco e scavata, semplicemente, con una pala. La stessa rosa dei venti era presente negli appunti dei bambini in una delle case visitabili: si dice che si usassero pagliette dâerba secche per permettere loro di muoversi con lâumiditĂ trasportata dal vento. Il piano su cui si muovevano era appunto una rosa dei venti disegnata, e queste proprietĂ magiche conferite dai bambini servivano come preveggenza verso la pioggia e il maltempo. In quei momenti, osservando quel luogo che si distruggeva lentamente al sole, portandosi dietro tutta la storia delle comunitĂ che lo abitavano, non riuscivo a vederlo necessariamente come un episodio tragico. Al contrario, lo percepivo come qualcosa di estremamente vitale e dinamico. La stessa comunitĂ italiana di quei luoghi è in continua trasformazione e lâidea che questo lavoro si proiettasse nella stessa direzione di quel processo di trasformazione, verso il futuro, mi sembrava la direzione giusta da intraprendere.
Proprio in virtĂš di questa intuizione e del legame tra la comunitĂ italo-slovena e quelle saline, io e il curatore Miccichè andammo a prendere diversi quintali di terra direttamente dal confine italo-sloveno, a pochi passi dalla costa. Un terriccio scuro e torbido, pieno di significati simbolici e carico di storia: quel luogo non solo rappresentava la linea politica e amministrativa che divideva le due comunitĂ che avevano abitato e lavorato in quel luogo, ma rappresentava anche concretamente un materiale che conteneva quelle specifiche informazioni che stavo cercando. Ora, la scultura appariva come un enorme disegno composto da due diversi suoli con diverse informazioni, come un monumento che funziona al contrario. Il suo scopo non era quello di resistere nel tempo, imprigionando unâinformazione per sempre, ma di dissolversi, ricomporsi e riformulare tutte le informazioni che conteneva. Il risultato finale di questa ricomposizione non è prevedibile, cosĂŹ come non lo è il futuro e lâidentitĂ delle generazioni a venire.
Una terra di mezzo, intrappolata nel tempo e cristallizzata nella forma fragile del terreno delle saline. Uno scenario liminale, al confine tra epoche differenti e lontane. In un certo modo, vedevo un rimando alla Terra desolata di Eliot: che cosa rimarrĂ , dopo tutti questi sforzi, dopo tutto lo studio e la ricerca allâinterno di questo luogo metafisico? La paura di un pugno di polvere.
Testo di Fabio Roncato
A cura di Matteo Scabeni
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