Andiamo a Venezia! Già il pensiero di tornare nella mia città mi mette a disagio. Faccio resistenza passiva e mi rifiuto di stabilire date, prenotare il viaggio o trovare un tetto su qualche piattaforma on line. Quindi finisce sempre che mi faccio portare, covando, dentro di me, il desiderio di non arrivare mai.
L’attrezzo del gioco era un tacco di scarpe da uomo usate, recuperato dal ciabattino del quartiere. Il territorio del gioco era l’area compresa tra il Patriarcato, la tomba di Daniele Manin e la parte soprelevata della piazzetta dei Leoncini, ai margini della quale veniva scelto un masegno [tipica pavimentazione veneziana, ndr] come base. Il tocco stabiliva l’ordine con il quale i giocatori, partendo dalla base, avrebbero tirato il loro tacco. Dal punto in cui il tacco si era fermato bisognava lanciarlo di nuovo nella base. Il primo che ci riusciva con un solo tiro acquisiva il diritto di colpire i tacchi altrui fuori dalla base, guadagnando un certo numero di figurine, pattuito all’inizio, ogni volta che colpiva il tacco di qualcuno. Rimanere senza figurine da parte di un giocatore significava essere fuori dal gioco, che poteva durare anche un intero pomeriggio.
A 28 anni me ne sono andato da Venezia, mettendo insieme una serie di motivi. In primo luogo un amore finito. Poi la complessa, ma attraente, prospettiva di trasferire nel profondo Sud, dove nel frattempo sembrava essersi consolidata una significativa presenza industriale, le competenze acquisite negli anni dell’Università e nel corso del lavoro all’interno di un gruppo multidisciplinare. Non ultimo motivo, la netta percezione del disastro al quale il centro storico di Venezia sarebbe andato incontro negli anni successivi. Da lontano, lavorando nei territori dell’Appennino meridionale, in Basilicata, mi sarei reso conto che le dinamiche demografiche dei paesi appenninici dell’emigrazione non erano del tutto diverse da quelle del centro storico di Venezia. Fatti salvi la Biennale, la Mostra del Cinema, le Università…e di una trentina di milioni di turisti all’anno.
Inizialmente quelli della gazzosa, del chinotto e della cedrata, poi quelli della birra e dei succhi di frutta con le immagini dei calciatori e il numero della maglia. Il mio gioco preferito, tra quelli che si potevano fare con i tappi, erano le gare di ciclismo. Il tappo andava preparato eliminando il sughero, colando un primo strato di cera e inserendo, sotto un secondo strato, l’immagine del ciclista. Ne avevo due: Bartali e Leoni. I tappi così appesantiti erano più stabili. La strada da percorrere veniva disegnata con il gesso sui masegni e prevedeva tappe in linea e di montagna, piene di curve; oppure era la cordonatura in pietra d’Istria della zona rialzata della piazzetta dei Leoncini, molto larga per quasi tutto il suo sviluppo, fatti salvi i tratti in corrispondenza dei basamenti dei Leoncini, che costituivano le tappe di montagna, dove i tappi dovevano rotolare in posizione verticale. I tappi venivano lanciati sulla pista dallo scatto tra il pollice e l’indice o il medio. Vinceva chi completava il percorso con meno tiri. Se uscivi dalla pista tornavi nel punto da dove avevi tirato e perdevi un turno.
Molti anni fa, quando i dati sulla popolazione del centro storico confermavano di anno in anno le più fosche previsioni senza che, a mio sapere, nessuno facesse nulla, se non abbandonare la città storica alla monocultura del turismo, avevo pensato che i pochi cittadini superstiti avrebbero dovuto essere pagati per rimanere a Venezia, indossando i costumi della Serenissima, dal sindaco – doge giù giù fino ai mestieri più umili. I turisti avrebbero dovuto indossare le furlane per ridurre il consumo delle antiche pietre. Ora, quando arrivo a Venezia:
Vardo solo i bigi masegni
No vogio vardar, de bon, altri segni
Vedarave ‘na civitas destruta,
no un popolo, solo chi la sfruta.*
Di quei lontani giochi non c’è più traccia. Sono caduti in disuso i luoghi dei giochi dei bambini, chiudono le scuole, la popolazione è ulteriormente invecchiata. Provo un grande imbarazzo ad arrivare a Venezia nelle vesti di un turista con questi pesi nel cuore.
Mi aiuta andare, ogni volta, a rivedere La creazione degli animali del Tintoretto, alle Gallerie dell’Accademia.
*Guardo soltanto i grigi masegni.
Non voglio assolutamente guardare altri segni.
Vedrei una civitas distrutta,
Non un popolo, solo chi la sfrutta.
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Mi è rimasta impressa una frase scritta su qualche muro "la partenza è l'inizio di un lungo percorso che porta allo stesso luogo dal quale eravamo partiti" Il desiderio del ritorno per l'esule forse è legato alla ricerca di qualche cosa che aveva e non si ritrova più, che ha forse perso nel tempo: il ricordo di un gioco, una strada, un viso ..... tutto quello che ha contribuito a essere ciò che siamo diventati e che forse ..... non vorremmo essere.
Per sdrammatizzare ti vorrei ricordare che c'erano anche personaggi alla Caremoli, il venditore di qualsiasi cosa alle partite di calcio, che elencava la sua mercanzia in un'unica parola carameeciocolatamentaaccendigaspiereteeee!
Ciao Nini