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Viaggi straordinari. Filippo Berta ai confini di Stato dei Balcani
Viaggi
Questo è un viaggio dove i confini di Stato non vengono superati ma vissuti. Nessun sconfinamento per raggiungere una meta, ma al contrario, un camminamento lungo delle frontiere, vissuto come un’immersione in luoghi che per loro natura sono irrisolti. Lì l’essere umano può interagire con se stesso e mettere in discussione la propria identità, in modo da riproporla come fosse un recipiente vuoto da reinterpretare. Il progetto One by One, vincitore nel 2019 dell’Italian Council V Edizione, supportato dalla GAMeC di Bergamo e da Nomas Foundation di Roma, ora mi sta offrendo la possibilità di raccontare questa forma di viaggio. Tutto iniziò nel 2015, quando si innalzavano nuovi muri lungo i confini dell’est Europa e ciò era al centro dell’attenzione mediatica, che aveva puntato la sua lente d’ingrandimento verso un flusso migratorio definito incontrollabile.
Dalle fotografie di quei luoghi austeri percepivo la violenza silenziosa delle spine d’acciaio, che ammassate ricoprivano l’intera superficie dei muri. Mentre osservavo quel numero infinito di punte taglienti tra loro aggrovigliate, si alimentava in me una suggestione inconsueta, che mi portava a immaginarle come fossero degli epicentri in tensione con i quali interagire. A quel punto, come un bambino cede con irriverenza al desiderio di toccare ciò che gli è vietato, similmente mi sono recato di fronte a quei muri di spine, azzerando ogni eventuale mia distanza interpretativa, ma soprattutto, libero da qualsiasi filtro mediatico. Era nell’ottobre del 2015 quando feci quel primo viaggio, accompagnato da Davide Gatti, regista con il quale collaboro dal 2009, ed Enea Discepoli, fotoreporter che era da poco rientrato dalla Siria, devastata da una guerra intestina.
Con loro ho raggiunto quei muri di spine da poco costruiti nell’area balcanica lungo il confine serbo, ungherese e croato, riuscendo ad evitare le aree più controllate dalla polizia di frontiera grazie all’aiuto di attivisti e associazioni umanitarie. Eccomi di fronte a quelle barriere invalicabili, e finalmente posso adagiare il palmo della mia mano destra sul groviglio di spine, per percepire quella tensione che fino a quel momento era stata solo immaginata nel mio studio. Poi, una notte, siamo riusciti a entrare nella stazione ferroviaria di Zákány, un piccolo villaggio ungherese di frontiera. In quelle ore sono stato testimone di una vera e propria deportazione, in cui un gran spiegamento di forze armate ungheresi caricavano sui vagoni di un treno lunghe carovane di migranti, per spedirli come merce in Europa centrale. La luce tagliente dei lampioni disegnava sagome umane oscure, che si muovevano con mesto e silenzioso ordine verso i vagoni del treno. Immerso in questo lento flusso di persone, rassegnate a seguire una direzione sconosciuta, ho sentito il dovere di riprendere ciò che stava accadendo. Rientrato in Italia, riguardai in studio le riprese, e mantenendo una certa distanza emotiva, mi misi al lavoro per realizzare il video One Way.
Mentre procedevo con il montaggio del video, mi convincevo sempre più che One by One fosse una performance corale da realizzare, a qualsiasi costo, lungo i confini di Stato, sebbene fossero delle aree militarizzate difficili da raggiungere. Ero inamovibile su questa mia scelta, poiché durante il primo viaggio nei Balcani, ho percepito quei confini, definiti da muri di spine invalicabili, come fossero delle ferite aperte, dove immergersi e respirare una condizione di sospensione. Solo all’interno di quelle strisce di terra, caratterizzate da una costante instabilità identitaria, potevo coinvolgere i locali per offrire a loro un’esperienza introspettiva, basata semplicemente sull’atto di toccare con l’indice ogni singola spina, in modo da percepire a livello epidermico la violenza insita in essa. Il semplice gesto veniva ripetuto sistematicamente, nel fallimentare tentativo di interagire con tutte le spine, contandole una ad una, ad alta voce e nella propria lingua.
Questo doveva essere One by One, concluso poi nel 2021 come una performance in video. Mi sentivo invece lontano dall’idea di una performance live, recitata all’interno di un luogo espositivo, osservata da un pubblico preparato, dove un muro spinato fittizio sarebbe servito solo come elemento coreografico. Di conseguenza, ho intrapreso una serie di viaggi per raggiungere i muri realizzati lungo i confini dei seguenti Stati: Slovenia, Croazia, Ungheria, Serbia, Grecia, Macedonia del Nord, Bulgaria, Turchia, Stati Uniti, Messico e Corea del Sud. Ma il vero viaggio straordinario è stato perdersi nelle pieghe della vita di ciascuna persona coinvolta, le quali si sono donate al progetto e relazionate con me, demolendo ogni forma di confine mentale e pregiudizi inutili. Così facendo, essi hanno reso possibile la realizzazione di un’opera, che era al di fuori della mia portata.
A riguardo, nel luglio del 2019 mi trovavo a Subotica, in Serbia, con l’obiettivo di riuscire a realizzare la performance sul difficile confine con l’Ungheria, dove le spine erano sotto carica elettrica. In quei giorni, Francesca Ceccherini, la producer di One by One, si trovava a Bergamo e lavorava estenuante in stretto contatto con le istituzioni ungheresi, in modo da ottenere il permesso per fare riprese video lungo il loro confine militarizzato. Il silenzio dall’Italia era demotivante. Poi, la mattina dell’ultimo mio giorno di soggiorno in Serbia, mi arriva in hotel la chiamata della responsabile ungherese dell’ufficio stampa della polizia di frontiera. Con un tono severo, mi comunicò di essersi occupata personalmente per garantirmi una scorta militare, in modo da realizzare le riprese video, senza essere arrestati. Questo piccolo miracolo accadde grazie alla sensibilità di un colonnello ungherese, che vuole tuttora mantenere il suo anonimato, il quale ammise di condividere i propositi del progetto. Sul confine croato, nel piccolo villaggio di Novačka, Elizabeta M. G. decise di coinvolgere il figlio di sei anni, e sebbene conoscesse la violenza della polizia croata, ammise la sua curiosità nel vedere con quale accusa avrebbero arrestato suo figlio. In Slovenia, Giuliana B. non riusciva a fermare le lacrime nel contare quelle spine, in quanto riemergevano in lei ricordi del passato, motivo per cui abbiamo più volte interrotto le riprese. Ma che dire di Branco, un pastore croato che coinvolse anche la nipote di cinque anni, il quale più volte trovò i suoi animali morti sul confine di Stato, intrappolati nel groviglio di spine. Finite le riprese, mi invitò a casa sua, dove, con il gruppo di lavoro, passai ore piacevoli, ascoltando vecchie storie tipiche dei luoghi di confine, alternate ai canti tradizionali che intonava con sua madre. Mirjam B. mi ospitò a casa sua, situata sul confine tra la Slovenia e la Croazia, facendomi vedere la barriera spinata, che da un giorno all’altro si trovò costruita sul perimetro del suo giardino. Fu lì che ovviamente realizzammo con lei e suo padre la performance. In quei viaggi la presenza umana si manifestava anche implicitamente in altre forme, come nei brandelli di vestiti impigliati nel groviglio di spine del muro tra la Macedonia del Nord e la Grecia, vicino a Gevgelija, e appartenuti a persone vittime della violenza di una frontiera che non si lascia oltrepassare. Sempre lungo lo stesso confine, ma a Idomeni, dove corrono le rotaie di una ferrovia, mentre stavamo facendo le riprese, passò lentamente un treno merci e delle persone stavano pericolosamente aggrappate ai vagoni. Il poliziotto che ci scortava, osservandomi sconsolato, mi disse che doveva assentarsi per eseguire il suo amaro dovere, ovvero fermare il treno per espellere quegli individui. In quel momento il confine della divisa crollò, facendo emergere la profondità emotiva dell’essere umano.
La stessa sensazione l’ho provata al centro di controllo bulgaro di Elhovo, vicino al confine con la Turchia, dove, in una stanza colma di monitor, degli agenti controllavano i 150 Kilometri di muro. Eleonora K., una responsabile della polizia di frontiera bulgara, ci accolse nel suo ufficio. Nel suo sorriso si palesava la sua emotiva vicinanza al proposito del progetto, e si stava convincendo di scortarmi nell’unico punto in cui non c’erano delle telecamere di controllo. Poi, dopo una lunga riflessione, rinunciò temendo di subire ritorsioni da parte dei sui superiori. In questi viaggi ho raggiunto frontiere, dove i muri spinati manifestavano la loro monumentale prepotenza, restando impermeabili anche a un silenzio spezzato solo dal rumore dei nostri passi. Ma ora posso dire che, la vera “fascinazione” non arrivava dalla tensione vibrante di quei luoghi irrisolti, piuttosto l’ho trovata in un viaggio parallelo, che si districava dentro al fitto intreccio di storie di vita della gente coinvolta. Questo è il basamento su cui poggia tutto il progetto One by One, iniziato nel 2015 e finito nel 2021, di cui l’opera finale rimarrà sempre e solo la punta di un iceberg.