Torno a Lipari da quasi trent’anni. Ogni mio viaggio è l’ulteriore passaggio per nuove scoperte che diventano stratificazioni di altre immagini e racconti del passato, piccole epifanie o conferme che rivivo come se tutto si fosse svolto in un tempo breve e indefinito che si rigenera con la velocità frugale di una vacanza, di giorni strappati alla routine, di una dimensione temporale irripetibile altrove. Lipari è il cuore storico delle Eolie ma allo stesso tempo è l’antitesi di quello che il viaggiatore standard cerca alle Eolie: silenzio, intimità, piedi scalzi, pulere con vista d’incanto sul mare e molte altre cose che è facile leggere e vedere su riviste di life style e post di Instagram.
Isola caotica d’estate – con un centro storico che è una piccola perla adibita per lo più a boutique di vario genere, paninoteche, arancinerie per il turismo mordi e fuggi – ma che ha al suo interno anche un meraviglioso museo archeologico, una cattedrale imponente con annesso un antico e bellissimo chiostro di epoca normanna, e non molto distante uno splendido teatro di epoca romana. Amo Lipari comunque, la sua bellezza assoluta e la sua bellezza corrotta, i difetti che ogni anno mi fanno incazzare. Ma alla fine penso che la Sicilia senza paradossi sia sempre più “Sicily”, un brand di consumo che sempre meno mi interessa e che lascio vampirizzare a noti marchi della moda e ai consumatori del “bello” sterile. Raccontare solo le cose belle e positive della Sicilia o del sud, è politically superficial e non politically correct e non lo sopporto, non so cosa farci, non lo trovo onesto.
Ogni mio ritorno è fatto di piccoli rituali, viaggi negli stessi identici luoghi, esattamente come se mi muovessi nelle stanze di un appartamento della memoria, foto che ripeto per stupirmi di piccole differenze o semplicemente per segnare un nuovo ulteriore passaggio. Torno ormai da qualche anno nell’osservatorio su Vulcano per ripetere sempre lo stesso scatto orientato sulla bocca del vulcano. Scatto da una piazzola nella quale spesso si incontrano i turisti che fanno il giro dell’isola in motorino e scattano l’iconica cartolina del Vulcano; lo stesso punto in cui la sera giovani liparoti vanno a fumarsi le canne guardando Vulcano di notte. Scatto la foto che fanno tutti.
Torno ogni anno alla chiesa dell’Annunziata, luogo semi isolato in mezzo alla campagna, celebre per la sua scalinata che sembra abbia ispirato quella della casa di Malaparte a Capri, che qui fu mandato in esilio e del quale esiste un ritratto proprio davanti alla scalinata dell’Annunziata. Mi siedo su una panca destinata ai fedeli e ci passo del tempo. Non c’è mai nessuno, rifaccio le stesse foto alla bella statua lignea dell’Arcangelo Gabriele sospesa nel vuoto, imbragata e attaccata alla parete bianca della piccola cappella in cui è situato. Il silenzio dell’Annunziata è un passaggio fondamentale del mio ritorno, uno spazio che riassume tutti quei meravigliosi luoghi storici semi abbandonati per tutta la Sicilia. Tornavo anni fa alla spiaggia di Pietra Liscia ed entravo spericolatamente nelle rovine dell’imponente sito industriale illudendomi che sarebbe stato per sempre il mio luogo eoliano, ma un’estate alla fine della discesa per la spiaggia c’erano gli ombrelloni in fila e un baracchino per i gelati. Il mio “ego wild” di vacanziere eoliano è finito lì. Oggi la natura ha fatto il suo corso lasciando un filo di sabbia e centinaia di barche e barchette che ogni estate stazionano davanti all’imponenza teatrale e spettrale della pomice del relitto industriale prossimo al crollo a causa dell’innalzamento del mare.
Tornavo spesso in un bar di Acqua Calda, frazione di Lipari. Una spiaggia di sassi considerata un importante sito industriale per l’estrazione della pomice. Mi ricordava l’American Bar del paese di mio nonno dove ho passato l’infanzia siciliana, l’ho sempre immaginato con gli operai della cava che ci passavano del tempo tra un turno e l’altro: le frange anti-mosche alla porta, il proprietario burbero, il flipper rotto, il calcio balilla, delle vecchie locandine di film western, la foto della Juve con Scirea e Bettega. Prendevo la granita e poi attraversavo la strada per fare il bagno, mi sedevo per leggere qualche libro o la Gazzetta del Sud, curioso da sempre della cronaca locale. Un anno, al mio ritorno, quel bar non esisteva più: un importante chef lo aveva trasformato costruendo una piattaforma sulla spiaggia, un meraviglioso locale con i tavoli illuminati da candele la sera e imbanditi di ravioli ripieni di branzino e altre squisitezze.
Il mio dispiacere su chi e su ciò che non c’è più non conta nulla e la mia sporadica frequenza nell’arco di trent’anni è nulla rispetto ai lutti e ai sogni di emancipazione di una comunità. Eppure, il vero dispiacere è avere ritrovato proprio quel locale definitivamente chiuso a distanza di tempo. Il dispiacere è nel vedere i sogni naufragare lasciando semplicemente dei vuoti, la lenta agonia dei luoghi. Purtroppo la Sicilia è piena di questi sogni finiti in breve tempo e di cui rimangono piccoli e grandi relitti urbani.
Il giro dell’isola è una frazione infinita di tempo in cui il viaggio fugace di un’ora e mezzo di due turisti o la mia lentissima lentezza fatta di ritorni valgono in modo uguale nel continuo consumo di memoria e narrazioni che viene fatto nella contemporaneità. Ognuno ha un proprio giro dell’isola, ognuno può “coprire” un territorio, definirlo, simulare o dichiarare se stesso nell’intimità dei luoghi. Alla fine ritrovo nella visione del vulcano il grado zero del ritorno, la radicale e inalterabile espressione di un passaggio nel paesaggio. Per superare qualunque scorciatoia in cui qualunque viaggio ci si riduce all’istantaneità di fotografie veloci, perfette e morte.
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